«È la scena più eccitante prodotta da una singola città, come non accadeva dai tempi della Londra punk», sentenziava Everett True, il giornalista che ha coniato il termine “grunge”. «Brutto nome, nome zoppo, in realtà. Ma è piuttosto divertente nella sua zoppìa» ribatteva Thurston Moore, chitarrista, cantante e produttore discografico statunitense, famoso per la sua militanza nei Sonic Youth, autore del libro “Grunge” insieme con il fotografo Michael Lavine. «Come è possibile che una parola (“grunge”) che vuol dire schifezza, spazzatura, sporcizia, sia divenuta il nome di un genere musicale, una moda e un fenomeno pop?», si chiedeva sorpreso il New York Times nel novembre 1992. Quel “fenomeno” non è stato dimenticato. «La scena degli anni Novanta è stata forse l’ultimo grande respiro del rock», afferma lo scrittore Andrea Pomella. Il suo romanzo “Anni luce”, selezionato tra i finalisti del premio Strega, è il racconto di una gioventù italiana che, come molte in quegli anni, ha vissuto un momento di simbiosi assoluta con la rivoluzione musicale del grunge. «Segnò – spiega Pomella – una rottura completa con le sonorità che avevano caratterizzato il decennio precedente, da un certo edonismo e da una musica più facile e leggera. Questo movimento proveniva dalla periferia dell’impero, da una città nel nord-ovest americano, Seattle, e sconvolgeva la scena con voci roche e aggressive che raccontavano di drammi familiari, di frustrazione e inadeguatezza, di una generazione che nutriva poche aspettative. Non è un caso che molti protagonisti si siano poi tolti la vita o siano scomparsi tragicamente».
SEATTLE, IL PALCOSCENICO DEL CAMBIAMENTO. Vista dallo Space Needle, la sua torre simbolo, Seattle si presenta come un grande affresco dove tutto appare perfettamente coerente: i grattacieli sbiaditi dalla pioggia a ovest del Puget Sound, i traghetti che trasportano auto e persone da una riva all’altra, le vette imbiancate di neve delle maestose Olympic Mountains. Minuscole insenature dedicate all’allevamento delle ostriche, piccole isole private, laghi che si alternano a lagune salate. Emerald city, la chiamano, gioiello incastonato in uno scenario naturale di baie, foreste e montagne sempre bianche. Seattle è un mito. Sinonimo di Boeing e di Microsoft. «Città drogata di caffè», come ironizzava Cameron Crowe, regista di “Singles”, alludendo alla catena Starbucks che da queste sponde del Pacifico ha invaso il mondo. Seattle, capitale del grunge, cappuccino ed eroina, come disse con maggiore crudezza Courtney Love, cantante delle Hole e moglie di Kurt Cobain, pochi giorni dopo il suicidio del marito. Qui germoglia la nuova contro-cultura, o s’inventa il software. Seattle ha apparentemente mantenuto lo spirito pionieristico dei suoi inizi. È la città simbolo del progresso (Boeing, Starbucks, Microsoft, Amazon), con un reddito alto a causa della presenza di molti manager e ingegneri, Seattle ha anche un numero record di senzatetto: circa 8.000 homeless (su una popolazione totale di 600.000 abitanti) vivono nelle strade o in tende in un’area periferica soprannominata “la giungla”. Le contraddizioni del sogno americano, per molti un incubo.

UN MOVIMENTO NICHILISTA. Qui, la Sub Pop – storica etichetta indipendente – negli anni Novanta riesce a dare visibilità a gruppi del calibro dei Mudhoney e dei Soundgarden, insieme ai Nirvana, cuore pulsante del movimento. Un movimento nichilista, che si sviluppa sullo sfondo di una pressante crisi economica che aveva messo in ginocchio la fiorente America, segnata ora dall’eroina e dall’Aids. È proprio in quell’America che nasce un nuovo suono per rispondere alle esigenze di quei giovani che non avevano più un punto di riferimento e che guardano al punk inglese, ormai passato e storicizzato, per trovare nuova espressione. Sono questi gli anni in cui nascono i primi movimenti giovanili no-global in risposta alla diffusione di multinazionali quali Starbucks o Microsoft. Il fotografo Michael Lavine immortala i Nirvana in studio in quattro diversi momenti, dai mesi della loro prima formazione, quando al posto di Dave Grohl alla batteria c’era ancora Chad Channing, fino agli anni del successo mondiale, quando accanto al leader della band c’era la moglie Courtney Love, regalandoci scatti diventati simbolo di un’era. Fotografie che, insieme a quelle di Charles Peterson sulla parte live dei Nirvana, compongono la mostra “Kurt Cobain & Il Grunge: Storia di una Rivoluzione”, aperta sino al primo luglio al Museo archeologico MarTa di Taranto nell’ambito delle iniziative promosse dal Medimex 2018.
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DIMMI CHI ERANO I NIRVANA. «Kurt Cobain, a differenza di quello che si pensa comunemente, era una persona gioviale, felice, piena di vita» racconta Michael Lavine. «Anche Cobain, come Aristosseno e Archita, – sottolinea il fotografo americano – può essere considerato un mito. Fa bene la direttrice del Museo a dire che le sue foto stanno benissimo in questo contesto della Magna Grecia. Kurt era umile e quando ci conoscemmo lui disse a noi: sono felice di lavorare con due fotografi famosi come voi. Il momento più brutto? Quello della sua deriva: noi e la sua band rimanemmo sconcertati ed era difficile fotografarlo».

Come sono arrivati i Nirvana nella sua vita?
«Ai tempi avevo uno studio su Bleeker Street, dalla mia finestra si vedeva l’ingresso del CBGB’S. Fu lì che scattai i Nirvana per la prima volta. Erano di passaggio a New York e vennero da me. Non li conoscevo, erano una band piccolissima, sconosciuta, i Mudhoney erano famosi, loro no. Li rividi l’anno dopo, era il 1991 e stavano registrando “Nevermind” a Los Angeles: mi chiesero di andare lì a scattargli delle foto per l’album. C’era Dave Grohl, era il primo servizio fotografico per lui. Fu divertente, quando arrivai Kurt stava dormendo sul divano, mi fecero ascoltare “Teen Spirit” e ricordo che pensai: “Wow mi piace questa canzone!”».
Mentre scattava le foto a Kurt Cobain, era consapevole di essere di fronte a un’icona rock?
«Sono onesto: no. Prima dell’uscita di “Nevermind” se mi avessero chiesto se immaginavo che i Nirvana sarebbero diventati una leggenda, mi sarei messo a ridere».
Lei ha visto e raccontato per immagini l’ascesa ma anche la caduta di un angelo del rock.
«L’ultima volta che Kurt è venuto nel mio studio era nel ’92. Si presentò strafatto. La tensione era davvero alta. La band era davvero imbarazzata. Kurt dormì a lungo nel mio letto. Poi è svenuto su una sedia. Kurt era così distrutto da non riuscire ad aprire gli occhi. Se guardi le foto di “In Utero”, nella versione originale, c’è una di Kurt con i capelli rossi che si sporge verso la telecamera con gli occhi sbarrati. A un certo punto, mi disse: “Adoro Courtney perché è il tipo di donna che si alza in una stanza e distrugge un tavolo di vetro senza motivo. Mi piace molto di lei”. Non ho mai più fotografato Kurt. Durante quel periodo, era tutto incasinato. Non era preparato ad affrontare la fama».

L’ultima volta che vide Cobain?
«Fu nel novembre del ’93 perché mi invitò agli Mtv Unplugged, ero in prima fila. Finito il concerto andai a salutarlo nel backstage, stava meglio, non si drogava ma usava tantissime pillole per combattere la dipendenza». «Il grunge è di certo bruciato in fretta» conclude Michael Lavine, ricordando la frase «meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente», scritta da Kurt Cobain nella “lettera d’addio”, quella che la moglie Courtney Love lesse ai fan sotto shock per la notizia del suicidio.

PEARL JAM, I SOPRAVVISSUTI. Sono rimasti i Pearl Jam a ricordare quegli anni un po’ scomposti, quella generazione X, sigarette rollate in fretta e gli Mtv Unplugged guardati nella tv delle camerette. A Seattle Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam, arrivò tre decenni fa. Nativo di Evanston, un sobborgo di Chicago, veniva dalla solare San Diego. Aveva appena venticinque anni e tanta rabbia da smaltire. Seattle accolse a braccia aperte quel figlio randagio d’America, rocker per vocazione e surfer per hobby. La nuova rivoluzione del rock, l’ultima, stava partendo da lì. Il grunge, aggressivo movimento postpunk nato nell’angolo più remoto degli Usa, aveva bisogno di nuovi profeti. Il fragile Kurt Cobain non ce l’avrebbe fatta a farsi carico da solo di tutte le responsabilità del nuovo corso. Nirvana e Pearl Jam diventarono i Sex Pistols e i Clash del grunge. E insieme a una dozzina di altre band trasformarono la città della pioggia nella nuova capitale della musica. Tra Vedder e Cobain non correva buon sangue quando il leader dei Nirvana si sparò un colpo nella sua villa di Seattle, nel 1994. A Eddie restò il rammarico di non essersi mai chiariti, ma lo consolò il fatto che Kurt in un’intervista avesse assolto per meriti quei “nemici” che aveva accusato di collusione con le major. A Seattle il furore (e l’incoscienza) del grunge fa ormai parte di un’esperienza indispensabile quanto remota. Quel fan che subito dopo il suicidio di Cobain andò a schiantarsi con l’automobile contro il cancello della sua villa di Seattle è un incubo lontano, come i nove ragazzi morti durante un concerto dei Pearl Jam al festival di Roskilde, nel 2000, schiacciati contro le transenne del sottopalco da una folla troppo entusiasta. Lo spettro riemerso con il misterioso suicidio di Chris Cornell è stato esorcizzato dallo stesso Vedder, uno dei migliori amici della voce dei Soundgarden, nel concerto del giugno dello scorso anno all’ Hammersmith Apollo di Londra. «In questi anni ho capito che la vita è preziosa. Non voglio più perdere d’occhio il privilegio che mi deriva dalla mia esperienza di rocker e la magnificenza di quel che ci circonda, la bellezza di una conchiglia che trovi nella sabbia, di una nuvola che si forma nel cielo, delle gocce di pioggia che si rincorrono in una pozzanghera. Siamo così tormentati dalle cattive notizie, strangolati da mille paure che non riusciamo più a vedere le meraviglie che il pianeta ci regala».
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L’IMPEGNO SOCIALE E POLITICO. Nella famiglia Eddie ha trovato la risposta alle sue inquietudini post adolescenziali espresse in maniera così lucida, poetica e rabbiosa nei primi due album, i capolavori dei Pearl Jam, “Ten” (1991) e “Vs” (1993). «Sono stato per decenni prigioniero del R&R e di tutto quello che altri schiavi del R&R hanno fatto, scritto, suonato e cantato. Poi sono diventato padre e ho dovuto fare un passo indietro. Sarebbe irresponsabile uscire ogni sera, bere, fumare e andare ai concerti fino all’alba. I bambini pretendono attenzione. Non hai più un mese, una settimana o un giorno per scrivere una canzone. Ti resta un’ora. Li metti a letto, poi cominci a lavorare sodo, e la mattina gli canti la nuova canzone mentre li accompagni a scuola. Una volta vidi mia figlia di tre anni che ballava in perfetta solitudine una danza bellissima e misteriosa sulle musiche di “Into the Wild” (la colonna sonora che ha composto per il film di Sean Penn, nda): è stata una delle emozioni più grandi mai provate». Resta l’inquietudine per il futuro del rock «assai meno romantico di un tempo». «Stiamo perdendo il disco e fra un po’ perderemo anche il piacere di sfogliare un libro, di lasciarlo a metà e di riprenderlo dopo un anno, di riporlo sullo scaffale». Eddie Vedder non ha però perso lo spirito ribelle del grunge. «Il luogo comune vuole che noi artisti facciamo parte di una sorta di élite hollywoodiana, specie protetta che dovrebbe tenersi lontana dalle beghe politiche, evitare di esprimere il proprio punto di vista, ignorare la propria educazione umanistica e fregarsene dei problemi del mondo. Noi però non viviamo a Hollywood, ma nella fottuta Seattle, paghiamo tasse salate e abbiamo il diritto di esprimere un’opinione. Questo mi hanno insegnato la musica con cui sono cresciuto e i romanzi che ho letto. Questo ho appreso da Woody Guthrie, Pete Seeger, Bruce Springsteen, Pete Townshend, Neil Young. Dai Clancy Brothers e dalla musica irlandese: pezzi di storia incorniciati in una canzone». Dopo il tour da solista dello scorso anno che toccò Taormina con due trionfali concerti, Eddie Vedder ha rimesso in pista i Pearl Jam per intraprendere un tour mondiale che il 22 giugno fa scalo a Milano, ospite dell’I-Day Festival, per essere poi il 24 giugno allo stadio Euganeo di Padova ed il 26 all’Olimpico di Roma.