4 Dicembre 1956, Memphis, Tennessee. Nel mitico Sun Studio, la casa di registrazione fondata sei anni prima da Sam Phillips in un edificio d’angolo al 706 Union Avenue, ha luogo la più famosa seduta d’incisione nella storia della musica contemporanea. La sua importanza risiede nel fatto che segnò, simbolicamente, la nascita del rock’n’roll. E ciò che la rende ancora più leggendaria è che avvenne per caso. Quel giorno il proprietario aveva convocato un ancora poco noto Jerry Lee Lewis a suonare il piano per una sessione di Carl Perkins. Di lì si trovarono a passare anche un ventunenne Elvis Presley, da poco scritturato, e Johnny Cash, già noto nel mondo country. Durante una pausa, il futuro “The King” sedette al piano e iniziò a suonare alcuni brani spiritual e gospel. Iniziò una jam session in cui, alternandosi allo strumento, i quattro miti in erba andarono avanti per più di un’ora ad eseguire e cantare brani che spaziavano dalla tradizione sacra a classici country e western di un Bill Monroe o di un Ernest Tubb, fondendoli con il timbro artistico nascente. Il rock stava emettendo i suoi primi, eppure vigorosi, potenti, vagiti: 47 brani, inanellati in un medley che fa venire i brividi grazie a una spontaneità molto più espressiva e viscerale di qualsiasi raffinatezza discografica. Un Million Dollar Quartet non solo per gli incassi a venire delle sue star, ma per il suo valore inestimabile, eterno.
10 Febbraio 2018, Memphis, Tennessee. Per una coincidenza quasi astrale quattro amici, tutti pazzi per il rock’n’roll, si ritrovano dentro lo stanzone di registrazione della Sun Records. L’idea è semplice e folle: rendere omaggio al solo e unico Million Dollar Quartet di Elvis, Jerry Lee, Johnny Cash e Carl Perkins. I quattro rockers italiani dicono che, in confronto, loro valgono al massimo una decina di dollari, ma tra le risate e le note di quel pomeriggio alla Sun Records, nasce il Million Euro Quartet! La formazione è semplice: c’è il romano Greg (il socio di Lillo) che canta e suona l’acustica, il nisseno Don Diego che canta e suona la sua telecaster, il catanese Mario Monterosso che canta e suona la sua Gretsch arancione e il marchigiano Antonio Sorgentone che martella sul piano. Il nisseno Sandro Pittari e il palermitano Luca Chiappara, rispettivamente alla batteria e al contrabbasso, completano questo mix di rispetto e amore per una musica senza tempo.
INCONTRO FRA AMICI. «Una goliardata» sorride Mario “Red Mount” Monterosso. «Un disco nato per caso». Nato dall’incontro fra due amici di vecchia data: il chitarrista blues catanese e l’honky tonker nisseno Diego Geraci. «È da più di vent’anni che ci conosciamo, dal 1997». Un’amicizia nata nella mitica Catania degli anni Novanta, quella che veniva definita la Seattle italiana, davanti o sopra un palco di qualche piccolo, fumoso e buio locale. «Eravamo in simbiosi» sottolinea Diego Geraci che a quel tempo scorrazzava nei pub di tutta la Sicilia con la sua band, la leggendaria Adels Scott, poi più semplicemente Adels. «Poi le nostre strade si sono separate» riprende Monterosso. «Io sono rimasto fedele al blues, lui invece si è avvicinato al rockabilly». Ma, soprattutto, il catanese dall’anima nera fa il grande balzo: con la sua chitarra si trasferisce a Memphis. Qui ritrova i suoi miti ed i suoi sogni. Entra a far parte della band di Tav Falco, del quale diventa anche produttore, viene chiamato da altri artisti, che ne apprezzano le doti di chitarrista. «Suono di tutto: funk, rockabilly, swing, blues, r&b e rock» dice con orgoglio. Si adatta perfino alla musica country. Tanto che viene arruolato per una tournée negli States dalla band del countrysinger texano Dale Watson, una sorta di Little Tony dai capelli argentati.
Dale Watson è anche l’organizzatore degli Ameripolitan Music Awards, un premio destinato agli strenui difensori «della musica originale con forti influenze tradizionali», spiega lui stesso. Outlaw Country, Rockabilly, Honky Tonk & Western Swing sono le sezioni per le quali viene assegnata la statuetta. Una manifestazione che si svolge ogni anno in febbraio ad Austin, la città della musica dal vivo, crocicchio fra la tradizione texana del country radicale e del movimento hippie, il cui simbolo è Willie Nelson, il musicista outlaw, fuorilegge, al quale è dedicata anche una statua pur essendo ancora in vita. Ed è qui, in questo miscuglio di modernità e vintage, che il bluesman etneo e il rockabilly nisseno si ritrovano. È il 2017 e «tre picciotti siciliani con i risvolti nei jeans e il cappello da cowboy attraversano l’Oceano per andare a sfidare i veri cowboy in quello che sanno fare meglio». Sparare? No. Cavalcare? No. Suonare. Il Don Diego Trio da Caltanissetta è nella cinquina delle nomination come migliore band rockabilly. «Una follia» ammette con ironia Diego Geraci. Che ispira tuttavia Vittorio Bongiorno, anche lui siciliano ma da almeno due decenni bolognese d’adozione, che dopo una serie di libri ispirati alla musica esordisce sul grande schermo con il documentario “Greetings from Austin”, presentato in anteprima al festival di Taormina.
«È stato Don Diego a contattarmi, aveva letto il mio libro “Il Duka in Sicilia”» spiega Bongiorno. «Io, a dire il vero, all’inizio ero piuttosto scettico, tanto amavo il blues e le sue origini legate alle sofferenze dei neri d’America, quanto il country e le canzoni yankee mi lasciavano quasi indifferente» racconta l’autore del docu-film. Parte con la videocamera alla volta del Texas con in mente “Leningrad cowboys go America” di Aki Kaurismäki, per ritrovarsi in un’America nostalgica e un po’ pacchiana, eppure così vera, filtrata dallo sguardo altrettanto malinconico di un siciliano che ha paura di «sembrare Clint Eastwood in un film di Sergio Leone».
LEGGI ANCHE: Addio Aretha, una delle più grandi voci del novecento
DAL FILM AL DISCO. In quest’America stile anni Cinquanta si calano per una decina di giorni lo sciamano Don Diego, Sandro Pittari e Luca “Guizzo” Chiappara. A dar loro man forte, viene chiamato l’amico catanese di vecchia data, Mario Monterosso, che da tempo calcava i palcoscenici del triangolo New Orleans-Memphis-Los Angeles. Distribuendo cioccolato modicano, simpatia, sicilianità, swing nostrano, rockabilly e carica da vendere, il quartetto si fa apprezzare dalle star di quei generi musicali e dal pubblico texano, riuscendo ad autofinanziarsi. L’idea è anche quella di registrare un album negli studi di Dale Watson alla ricerca di un suono perduto che nessun amplificatore moderno (e, soprattutto, italiano) può assicurare. È l’inseguimento e la realizzazione di un sogno, anche se si tornerà a casa senza alcun premio e più poveri di prima. Ma più felici e orgogliosi di aver dimostrato che anche picciotti siciliani sanno suonare come facevano i grandi “padri” del rock.
Passa un anno e stavolta è Mario Monterosso a trovarsi protagonista agli Ameripolitan Music Awards. «La mia è stata una vittoria personale, virtuale» tiene a precisare. «Non avevo una nomination, ma facevo parte dell’orchestra principale. Dale Watson aveva scelto due chitarristi: uno di Memphis e l’altro ero io». Per festeggiare questo riconoscimento, il chitarrista etneo ricambia l’invito di Don Diego, proponendogli la registrazione di un album nello studio Sun Records. «Un gioco, un altro sfizio da realizzare, ritrovarsi nella storia, in quel mitico studio» ride Monterosso. Che coinvolge altri amici, Claudio “Greg” Gregori e Antonio Sorgentone, altri amanti delle radici del rock’n’roll. «Ciascuno avrebbe dovuto comporre due brani per fare un album completo». Nel progetto, via Facebook, viene coinvolta anche Gina Haley, figlia del mitico Bill, colui che con i suoi Comets nel 1954 fece partire le lancette della storia del rock’n’roll con la canzone “Rock around the clock”.
«In quattro ore abbiamo registrato l’album, tutto “live”, nello stanzone della Sun Records» racconta Monterosso. «Il nome del gruppo riprende quello di una delle canzoni di Greg, ma è per scherzare, così come la foto della copertina con il Million Dollar Quartet che ci osserva alle spalle». Qualcuno ha tuttavia creduto nel progetto: presentato al recente Summer Jamboree di Senigallia, l’album, intitolato “Rockin’ in Memphis”, ha trovato infatti una distribuzione in America e in novembre uscirà anche in vinile.
LA STORIA CONTINUA… Un’avventura, quella del Million Euro Quartet, che rappresenta un nuovo capitolo dell’avventura che Mario Monterosso ha cominciato a raccontare nel musical “Fui e sono Eddy Red Mount”, presentato lo scorso febbraio a Catania in anteprima nazionale. «È un musical autobiografico, anche se per il nome del protagonista ho scelto quello di mio nonno Edoardo. Immagino un mio lontano parente che negli anni Quaranta decide di lasciare la Sicilia e di emigrare in America. Sbarcato a New York, comincia a esibirsi nei locali di Little Italy. La musica è uno swing alla Louis Prima, mentre la lingua è siculo-americano, “brooklynese” puro».
Ma il vulcanico bluesinger siciliano non si ferma qui. «Mi piacerebbe tornare a suonare con Carmen Consoli, con cui cominciai e che mi convinse a intraprendere questa esperienza oltre lo Stretto, magari portandola a registrare un album alla Stax».
Stax Records, Memphis, Tennessee. Alle origini del soul…