È sempre più difficile districarsi in quella che è la selva attuale della poesia contemporanea, non solo per la quantità di libri che escono ogni anno ma anche perché sembra che sia venuta a mancare la critica letteraria che prima orientava e aiutava i lettori a capire cosa leggere. Tuttavia anche in questo stato attuale delle cose alcune direttrici è possibile individuarle sia grazie all’opera di alcune riviste letterarie molto longeve (“Gradiva”, ad esempio, di Olschki editore) sia per alcune pubblicazioni che intendono farci conoscere poeti che sono sconosciuti al grande pubblico e che meritano per la loro opera di essere maggiormente noti.
È il caso in questione di Pierluigi Cappello, che a tutti gli effetti, pur essendo stato una voce importante nel panorama della poesia italiana contemporanea (si è spento nel 2017), può considerarsi un poeta ‘inedito’ e che la BUR Rizzoli con il volume “Un prato in pendio” (2018) ha voluto per la prima volta far conoscere al grande pubblico. In questo libro vengono raccolte tutte le sue liriche riconosciute (1992-2017) e vengono ordinate in senso diacronico dagli anni Novanta fino alle ultime prove (Azzurro elementare, Ogni goccia balla il tango, Stato di quiete, Poesie e prose inedite). Il volume inoltre è provvisto di interventi critici (Alessandro Fo, Gian Mario Villalta, Eraldo Affinati, di Francesca Archibugi, e di Jovanotti), di una bibliografia a cura di Anna de Simone, e di una sezione in cui sono riprodotti i manoscritti del poeta.
La poesia di Cappello è sia in lingua che in dialetto friulano e si caratterizza per il nitore espressivo e la semplicità del dettato espressivo, ma anche per richiami ed echi letterari che affiorano qua e là nei suoi versi (Attieniti alla misura dell’erba/ di questo prato che è largo/ quanto si stende di verde/ è qui che sei approdato, adesso;…) e abilmente dosati nella costruzione lirica dei testi. Il suo immaginario poetico è tutto calato nelle cose, le guarda dal di dentro, e di volta in volta ne assume la prospettiva, quasi a immedesimarsi con esse, e quasi ad avvolgerle in un atmosfera magica e di sogno (p.127):
è qui che sei approdato, adesso;
ti sei svegliato
hai inforcato gli occhiali
hai calzato le scarpe
hai camminato, perfino:
per questo è plausibile
che ogni soffio di brezza
sia un bacio di Armida
che il prato sorrida com’è scritto nei libri.
La scrittura aiuta il poeta a far da filtro al senso del dolore, a volte alla mancanza di luce, che avvolge le cose (p.123):
C’è poca luce in questa illune stanza
uno se cerca le cose le trova
per caso come nel buio come esiti
di sogno dov’è smarrita ogni carta
di navigazione…
Senza accorgersene così ritrova coordinate a volte ideali e mentali nel disordine dell’esistenza. Un’energia sconosciuta mette in moto per magia quell’urto e quel fremito che gli consente di ritrovare la comunicazione e il dialogo con tutto ciò che esiste:
ci vuole pur qualcosa
un urto, l’approdo di uno smarrito
Enea o un verbo come terminare
o chiudere […]
Buio e luce, vuoto e possibilità di esiti di sogno impensati sono gli assi lungo i quali ruota la poesia di Cappello, che raggiunge la pienezza dell’espressione quando i versi si fanno i leggeri e impalpabili e quando il reale si smaterializza nell’irreale, in una percezione ‘metafisica’ dell’esistenza che diventa riflessione sulla vita e su come vivere. Nella “Misura dell’erba”, nell’essere tutt’uno con le cose, nel fondersi con esse, il Poeta crea una sorta di realtà parallela, un diaframma di serenità e di luce, un orizzonte in cui è quasi possibile ritrovare l’accordo con la natura, la voce del sogno che sembrava spenta nel cuore.