All’Ariston era entrato con il Premio Lunezia per il miglior testo. Al termine della serata delle cover aveva ricevuto un sms da Claudia Mori e Adriano Celentano con il quale esprimevano il loro apprezzamento ed il loro divertimento per la sua versione di “24 mila baci” con Nina Zilli. La due sala stampa l’hanno votato assegnandogli i prestigiosi Premi della critica “Mia Martini” e “Lucio Dalla”. E, alla fine, proprio sulla spinta della giuria dei giornalisti, è salito sul gradino più alto dell’edizione numero 70 del Festival della canzone italiana, al termine di un testa a testa con Francesco Gabbani (“Viceversa”), piazzatosi al secondo posto. Terzi, a sorpresa, la band dei Pinguini Tattici Nucleari con “Ringo Starr”.
Ha fatto davvero rumore Diodato. Il cantautore pugliese, classe 1981, ha scritto il suo nome sull’albo d’oro della storia di Sanremo al terzo tentativo (la seconda tra i big, dopo l’esperienza del 2018 in coppia con Roy Paci) con la canzone “Fai rumore”, un brano obliquo, fra Radiohead e Domenico Modugno, elettronica e tradizione melodica, adatto allo spirito di questa edizione sospesa tra passato e presente. Un invito ad abbattere i muri dell’incomunicabilità. Un pezzo raffinato in cui le doti autorali e interpretative di Diodato raggiungono l’apice. Una composizione contenuta nel nuovo album di inediti “Che vita meravigliosa”, in uscita il 14 febbraio per Carosello Records.
«Ci sto capendo ancora poco», commenta felice ed emozionato il trionfatore. «Il Festival è fatto di attese lunghissime. Sono sorpreso dall’affetto e dal calore con cui sono stato accolto sin dall’inizio. Arrivo a questo successo dopo tanti anni di gavetta e di batoste. Ho imparato che dai dolori possono nascere grandi cose. Non mi sarei mai aspettato di ricevere tutti questi premi».
Premi che Diodato dedica innanzitutto «alla mia famiglia, che ha fatto tanto rumore nella mia vita e che questa volta mi ha seguito in silenzio. Poi all’altra famiglia che si è creata attorno a me. Ma, soprattutto, alla mia città, a Taranto, che è una città per la quale bisogna far rumore, li dedico a tutti quelli che lottano ogni giorno per combattere una situazione che è diventata insostenibile».
Diodato è un viaggiatore che sa ascoltare. A Sanremo è venuto per far sentire la propria voce, in sala stampa ha distribuito tamburi, ma non sopporta chi urla, nella vita come nei social. «Mi piace molto girare il mondo da solo, recentemente sono stato in Giappone, scoprire nuovi posti presuppone il comunicare, spesso, con persone che non si conoscono», racconta il trentanovenne cantautore pugliese, particolarmente orgoglioso anche di aver collaborato alla colonna sonora de “La dea Fortuna” di Ferzan Ozpetek proprio con il brano che dà il titolo al nuovo progetto. «Non credo di essere mai stato così tanto me stesso, d’essere mai stato in grado di mettere così a fuoco il mio vissuto e tutte le sensazioni che mi hanno portato a scrivere questo pezzo. La canzone “Fai rumore” parla del farsi sentire, di rompere il silenzio, ma senza urlare e continuando a percepire la presenza di un’altra persona nonostante la distanza. La mia è una condizione da perenne viaggiatore, navigante felicemente disperso, di osservatore talvolta malinconico, talvolta disincantato, di eterno bambino innamorato di questa giostra folle che è la vita».
E non si rispecchia in quello che vede. «Nella vita di tutti i giorni, in particolare sui social, ci sono tanti urlatori che non vogliono ascoltare il prossimo», ammette Diodato. «Il rumore di cui parlo io, invece, ha un forte valore umano. Per scrivere mi nutro di cinema, letteratura, di grandi passeggiate. Nei bar incontro persone che hanno qualche cosa da raccontare, ascolto e immagazzino».
Diodato dà un grande potere alla parola: «Voglio essere il primo a mostrare un certo tipo di attenzione nei confronti di chi ho accanto. Intorno a me vedo troppa disattenzione nei confronti di chi abbiamo vicino. Questa mancanza di dialogo è uno dei grandi mali di questi tempi».
L’album, il terzo della sua carriera a più di due anni da “Cosa siamo diventati”, arriva dopo un periodo di cambiamenti, dopo un trasferimento da Roma a Milano, dopo la fine di una storia importante (con la collega Levante, che ha ritrovato sul palco dell’Ariston, «che si merita tutto»). «Mi ero reso conto di essere fermo. Roma, dove ho abitato per molti anni, con la sua bellezza immobile e millenaria, in qualche modo mi stava spegnendo. I cambiamenti mi sono serviti. E anche il Festival è arrivato nel momento giusto».
Lo spirito dell’album è raccontato anche da una copertina dal sapore fantastico, di Paolo De Francesco: un disegno di figure retoriche quasi surrealista, dove c’è il conflitto tra l’ambizione di un tutto visibile e la ricerca di una verità nascosta. Al centro una piscina che sta per essere sconvolta da un missile, metafora degli accadimenti, del male e del bene che sconvolgono le nostre vite. Sullo sfondo, una fabbrica che richiama l’Ilva, lo stabilimento siderurgico che ha avvelenato Taranto, città di Diodato per la quale, da sempre, l’artista si batte. Nel disco c’è un chiaro riferimento nel brano “Il commerciante”.
«Lotto per la mia Taranto: la situazione dell’ex Ilva è inaccettabile» ribadisce. «Da quando sono direttore artistico del concerto del Primo Maggio di Taranto ho capito ancora di più quanto la musica possa essere cassa di risonanza per certe questioni. Taranto c’è sempre, in ogni canzone, “anche in quelle d’amore che faccio, perché quella tragedia umana lì ti mette davanti a delle considerazioni che raramente puoi fare nel corso di una vita».