Diceva Henry Miller dell’era beat: «Questa è un’epoca di miracoli, ma il tempo dei superuomini è finito». Passano gli anni, ma certe frasi rimangono valide. Anche per il rock non è più tempo di eroi. In un’America dove un palazzinaro come Donald Trump può entrare da presidente alla Casa Bianca grazie ai suoi miliardi, in un Paese indifferente alla pena di morte, dove si continua a lottare per i diritti civili, anche l’ultimo “rock’n’roll hero” può decidere di abdicare dal suo ruolo.
Certo, sarebbe stato ridicolo sentire parlare Bruce Springsteen – che il 23 settembre compie 71 anni – di fantastiche corse in Cadillac piene di ragazze facili. Come si sono persi anche gli odori e gli umori delle backstreets, i bassifondi del sogno americano. I ragazzi non infiammano più le chitarre come se usassero coltelli a serramanico e non c’è più quel senso comune di un’intera generazione indirizzata sulle strade di un metaforico ma perentorio esodo verso una “promise land”.
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È cambiato il punto di vista. Oggi Bruce Springsteen guarda il mondo da un ranch della contea di Monmouth, New Jersey. Le strade violente, le metropoli, come nel “Grand Canyon” di Lawrence Kasdan, sono gli spettri che spingono l’uomo a ritrovare sentimenti e solidarietà. “Sotto una folla di alberi ibridi ho tirato quel fastidioso filo / Mi sono inginocchiato, ho afferrato la penna e ho chinato la testa / Ho cercato di evocare tutto ciò che il mio cuore trova vero / E inviarlo nella mia lettera a te”, canta in Letter To You, la canzone che dà il titolo all’album che il Boss pubblicherà il prossimo 23 ottobre. «Una lettera al mondo», l’ha definita l’autore in una intervista a Rolling Stone.
Bruce Springsteen ha abbandonato anche il vezzo di tingersi i capelli con il lucido delle scarpe. Nel video che accompagna Letter To You appare senza trucchi: un vecchio signore con i capelli argento e neri, tagliati corti, dall’aria leggermente stanca, ma appassionato e divertito. E senza trucchi è l’intero album. Realizzato in un batter d’occhio in una giornata nevosa dello scorso novembre, come indica la copertina invernale. Per cinque giorni il Boss ha riunito i compagni di mille avventure della E Street Band e insieme sono riusciti a mettere giù un intero album. Come ai vecchi tempi, quando registrarono Born in the U.S.A., quasi senza sovraincisioni. «È l’unico album in cui suona l’intera band contemporaneamente», sottolinea Springsteen, «con tutte le parti vocali e tutto completamente dal vivo».
Letter To You sembra essere l’album dal suono più classico e sfacciatamente E Street dai tempi di The River. Durante le session, narra la leggenda, lo stesso Springsteen avrebbe incitato Roy Bittan a suonare «più da E Street». «Volevo rivisitare quel suono con il mio materiale attuale», commenta il Boss alla rivista americana. Una sorta di rinascita del tardo periodo, cominciata con pensieri di morte.
Il tema della mortalità, della perdita, è presente in molte canzoni, dall’iniziale One Minute You’re Here alla traccia di chiusura I’ll See You in My Dreams, dall’elegiaca Last Man Standing, uno dei brani più autobiografici in cui Springsteen ripercorre i concerti con i Castiles, una delle prime band nella quale militò, prima di saltare a un futuro segnato da perdite: “Conti i nomi dei dispersi, mentre conti il tempo”.
Sono i fantasmi che abitano i sogni di Springsteen e alimentano la sua depressione, e che vengono evocati nella canzone Ghosts, nella quale il Boss grida: “Sono vivo”. «La perdita di Clarence (Clemons) e Danny (Federici) riecheggia ancora ogni giorno della mia vita», confessa. «Continuo a non crederci. Dico: “Non rivedrò più Clarence? Non sembra proprio possibile!”. Vivo con i morti ogni giorno a questo punto della mia vita. Che si tratti di mio padre o Clarence o Danny, tutte quelle persone camminano al tuo fianco. Il loro spirito, la loro energia, la loro eco continuano a risuonare nel mondo fisico. … La parte più bella della vita è ciò che ci lasciano i morti».
Tutte le canzoni dell’album sono state scritte in meno di dieci giorni. «Ho vagato per casa in stanze diverse e ho scritto una canzone ogni giorno. Ho scritto una canzone in camera da letto. Un’altra nel nostro bar. Un’altra ancora in soggiorno». Ma non tutte sono inedite. Alcune sono outtakes rimaste fuori dal cofanetto Tracks del 1998. È il caso di Song to Orphans (scritta nel 1971, un derivato da Dylan che cattura parte del disincanto di Springsteen verso i sogni degli anni Sessanta). Poi Janey Needs a Shooter (un classico perduto che la band provò fino al 1979 in un arrangiamento quasi identico, lasciandolo poi al co-autore Warren Zevon) e una versione inaspettatamente incisiva del gioiello sacrilego If I Was the Priest (brano del 1972, lanciato dal cantante degli Hollies Allan Clarke negli anni Settanta). «Non c’è un messaggio particolare nella loro inclusione», spiega a Rolling Stone. «Volevo semplicemente sentire la band come le suonava ora, per essere in grado di tornare indietro e cantare con la tua voce da adulto ma con idee della tua giovinezza … È stato divertente, perché i testi di tutte quelle canzoni erano così completamente folli».
Si ritorna tristemente ai tempi odierni con Rainmaker, in cui un truffatore offre false speranze agli agricoltori colpiti dalla siccità. Sembra un riferimento a Trump, ma è lo stesso Boss a smentire: «Parlo di un demagogo, ma ho scritto questa canzone pochi anni prima che Trump s’insediasse». Un presentimento, insomma. Ma, alla vigilia del voto per la Casa Bianca, una frecciata all’attuale inquilino in corsa per un bis non poteva non mancare: è il “clown criminale” che “ha rubato il trono” in una canzone che trascende la politica, House of a Thousand Guitars, travolgente inno in cui il pianoforte di Roy Bittan è imponente. La “casa delle mille chitarre” è la nuova terra promessa, è il paradiso rock & roll sulla Terra, un luogo “dove la musica non finisce mai” e regna l’amicizia, una destinazione non lontana dalla sua Land of Hope and Dreams. «È il mondo spirituale che volevo costruire per me stesso e darlo al mio pubblico. Potrebbe essere una delle mie canzoni preferite di tutti i tempi. Comprende tutto ciò che ho cercato di fare negli ultimi cinquant’anni».
Springsteen avrebbe visto bene Bernie Sanders alla Casa Bianca. «Non so se fosse la mia scelta principale, la mia prima scelta. Mi piace Elizabeth Warren, mi piace Bernie», dichiara a Rolling Stone. «La potenza dell’idea americana è stata abbandonata», aggiunge. «È un vero peccato, e abbiamo bisogno di qualcuno che possa riportarla in vita. … Penso che Joe Biden possa aiutarci a riconquistare il nostro status in tutto il mondo. L’immagine del Paese luce splendente della democrazia è stata distrutta dall’attuale amministrazione. Abbiamo abbandonato gli amici, abbiamo stretto amicizia con i dittatori, abbiamo negato la scienza del clima».
Letter To You avrebbe dovuto essere il biglietto da visita per il ritorno sui palcoscenici di tutto il mondo con la E Street Band. Il tour doveva salpare nella primavera del 2021. Poi è scattata l’emergenza pandemia. «La mia antenna mi dice, nella migliore delle ipotesi, il 2022. E considererei fortunata l’industria dei concerti se succedesse allora … mi considero fortunato se perdo solo un anno di vita in tour. Penso ai musicisti che vanno di settimana in settimana, e tutte le persone di back-line nella troupe. Loro soffrono… Una volta che raggiungi i 70 anni, c’è un numero limitato di tour e un numero limitato di anni che hai. E quindi perdi uno o due, non è così grande. Soprattutto perché io sento che la band è capace di suonare al massimo, e mi sento vitale come non mi sono mai sentito in vita mia …».