Quasimodo pensavo di conoscerlo, ma mi sono dovuto ricredere. Grazie a Carlangelo Mauro, autore di diversi studi sul poeta siciliano e di edizioni degli scritti giornalistici, e alla bella edizione che ha curato per Oscar Mondadori Baobab di tutte le poesie del poeta, ho scoperto un autore nuovo e posso dire non di averlo riletto, ma di averlo davvero letto in questi giorni per la prima volta. Molti sono i pregi di questo volume. Per prima cosa ricorderei che sono stati pubblicati testi inediti (il Quaderno giovanile ricopiato da Pugliatti, un autografo che è andato perso), ma anche poesie edite e poco conosciute dal grande pubblico (ad esempio, le sillogi uscite su Humanitas). Poi aggiungerei che il libro è molto curato anche nel modo in cui sono organizzati i contenuti: c’è la prefazione di Gilberto Finzi, seguono le opere del poeta, con i Lirici greci integrati nel corpo dei testi, come atto creativo vero e proprio e non come lavoro di traduzione, poi le Notizie biografiche e i Percorsi di lettura.
Si tratta di una distribuzione ordinata, utile per chi legge, soprattutto per i lettori non specialisti, in cui il contributo di Finzi e quelli di Mauro sono perfettamente complementari e speculari fra loro. Nel primo (la prefazione) viene fatto un quadro generale sulla formazione del poeta, e su come si costituisce in lui fin dalle prime prove un io molto personale, che sa fare suoi in una voce molto originale molti echi prenovecenteschi e novecenteschi, fino all’apertura alla realtà della raccolta Giorno dopo giorno.
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Nel secondo invece Mauro scandaglia con veri e propri microsaggi le varie raccolte ed entra a fondo nella materia e nella scrittura di Quasimodo. Di volta in volta ci fornisce notizie inedite e sottili analisi interpretative, e credo che non sia sbagliato affermare che le sue Notizie biografiche, rispetto a quella precedente degli Oscar e del Meridiano, sono un ritratto d’autore vero e proprio, da cui emerge l’infondatezza dello stereotipo del mito siculo-greco inteso come pura esibizione letteraria. Per il poeta il paesaggio, e non solo quello siculo, è fonte di ispirazione per la sua scrittura (pag. 503):
[…] Paesaggio ed esperienze intime a esso legate – angoscia e dolore, gioia e amore, vita e morte – sono spesso considerati un dato puramente mitico nella poesia di Quasimodo o, peggio, uno stereotipo manieristico. Il poeta, invece, ribadisce più volte che si tratta dello sfondo concreto della sua infanzia siciliana («non ho cercato lontano il mio canto, e il mio paesaggio non è mitologico o parnassiano: là c’è l’Anapo e l’Imera e il Platani e il Ciane con i suoi papiri e gli eucalyptus, là Pantalica […] là Gela e Megara Iblea e Lentini», Una poetica, 1950), al quale si sovrappongono i luoghi delle trasferte: in una poesia delle ultime raccolte, Alla Liguria, Imperia e il duro lavoro al Genio Civile («Sulle tue montagne […] / ho costruito una strada, / in alto tra i castagni»); in Sardegna i nuraghi attorno al comune di Siliqua (che si sovrappone al paesaggio siciliano: «Siliqua / dai conci di terra cruda, / negli ossami di pietra / in coni tronchi»); in Lamento per il Sud, anche questo un testo più tardo, le nebbiose pianure lombarde (dove l’amore lo ha restituito a una nuova vita: «Il mio cuore è ormai su queste praterie / in queste acque annuvolate dalle nebbie»). […]
Mauro nei Percorsi critici riconduce la poesia ermetica di Quasimodo nel solco della tradizione italiana. Insiste molto sul legame fra il poeta e la terra, e anche sulla sua capacità di interpretare in modo autentico il proprio tempo. Quella di Giorno dopo giorno più che una svolta è il naturale compimento di un percorso in cui fin dagli inizi il poeta mirava a parlare a un pubblico non ristretto. Egli aveva sempre cercato la chiarezza e la limpidezza espressiva e a volte l’aveva perseguita a tal punto da apparire oscuro. Coerentemente con il suo percorso dinanzi all’abominio della guerra il suo linguaggio si arricchisce di toni nuovi e la sua poesia si fa civile, nel senso più alto del termine, e arriva a scagliarsi contro l’uomo del suo tempo, che usa la scienza per sterminare altri uomini:
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
– t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta. […]
Sono versi intensi, quasi profetici, che in un mondo perennemente sconvolto da conflitti di ogni tipo, risuonano più che mai attuali. E forse è bene leggerli e rileggerli, prima per noi stessi, e poi per gli altri, e scriverli nel nostro cuore, se davvero vogliamo che un giorno su la nostra martoriata Terra ci sia un po’ di pace in più.