In questi primi giorni di maggio, in cui i tepori della primavera sono ancora velati da ombre di giorni a volte bui, leggo L’apocrifo nel baule di Michele Brancale. I versi di questo libro esile (consta meno di cento pagine), ma intenso, con la loro asciutta compostezza mi portano in un mondo che non c’è più, quello del Mezzogiorno d’Italia nell’immediato dopoguerra, e mi trasmettono una familiarità, un contatto umano, quel senso inesplicabile di non detto, che solo una scrittura ben meditata sa evocare.
L’autore rivolgendosi a un tu non identificato, asserisce di aver ritrovato un suo manoscritto in un baule, e dice di averlo riscritto insieme a lui. Come un pittore che ridisegna, corregge, lima, aggiunge punti di fuga, ombre, luci a un quadro già fissato su una tela di un altro artista, egli allo stesso modo riscrive con questo suo interlocutore immaginario o reale questo libro, aggiungendo, togliendo, reinventando immagini, conservandone altre. La scrittura diventa per lui quindi dialogo con un altro io, assente, con una figura importante della sua vita per sempre perduta; riscrivere le parole ritrovate nel baule per lui è l’unico modo per ritrovare l’altro, per appropriarsi di quel mondo che non c’è più e dei volti che ha incontrato nella sua esistenza, dell’esperienza drammatica della guerra, della sua vita di paese, o di maestro di scuola elementare. Riscrivere il libro è l’unico modo che poeticamente ha per ricrearne l’esistenza, per diventare tutt’uno con lui, per trovare una voce unica con cui parlare a distanza di tempo.
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Sin dai primi versi è come se l’io poetico si sdoppiasse: con un ritmo misurato ci riporta indietro nell’Italia degli anni Quaranta, stabilisce una relazione immaginaria con il passato, lo fa rivivere con un linguaggio concreto che aderisce alle cose, alla loro consistenza, che è semplice e diretto. La poesia si fa documento umano, racconto della storia di un uomo del Sud, della sua esperienza della guerra, della vita di paese, ma anche del suo primo incarico di maestro. L’io poetico ne rielabora le parole, come un abile scultore incide nel repertorio dei suoi ricordi di gioventù immagini e volti e li riporta alla luce, mescola in un attraversamento la propria identità con quella dell’autore ignoto del libro ritrovato nel baule (p.17):
Ritrovando nella risma di carte,
accumulate nella cassettiera
dello studio, quella foto archiviata,
riconosco ad uno ad uno quei volti
riemersi dal mare mosso di ieri,
scosso nel profondo dal loro grido,
quando la torpediniera arrancava
sotto il fuoco delle altre navi intorno.Nella trama degli eroi oscurati
da uno spesso velo di irrilevanza ˗
ciminiera che brucia la storia ˗
sembra disegnato un senso di fine,
di sconfitta che ora si ribalta,
per l’amore guadagnato del nome,
il loro, che si fa commento
al nostro disincanto.
Sparirono?
Non bisogna però pensare che questo nuovo libro di Brancale abbia toni solo elegiaci; più che ricordare il passato le liriche sono un resoconto di una vita vissuta con pienezza, e come tale assumono diverse sfaccettature, con toni a volte nostalgici ma anche gioiosi e a volte satirici (si pensi alle liriche dedicate alla nonna Palmira che adorava un armadio che credeva pieno di denaro, o alla collega sentimentalona) che hanno la loro naturale conclusione nella consapevolezza, che la vita si porta via sogni e illusioni: di loro resta solo una labile traccia nelle rughe della nonna, che narrava storie di castelli, sirene e fate (p.88):
C’è in questa posa,
accanto a lei, la certezza che quanto
resta del bambino che l’ascoltava,
quanto in lui resta di disponibile
a credere ancora alla forza dei sogni,
è in quel nuovo sorriso che scorgo
tra le sue rughe, sul suo volto assorto:
è nella favola che lei si porta via.
Nel manoscritto ritrovato Brancale riscopre per sé stesso, ma anche per noi una voce antica, ciò che ancora resta in noi, che viviamo in una società spesso disumana, dei sogni e dei racconti di un’età remota della nostra storia. Chiunque sa però ritrovare (sembra suggerirci l’autore fra le righe) nella sua esistenza un apocrifo in un baule la può ancora rivivere, e riscoprire così il legame profondo con l’umano.