Oggi rileggo un bel libro di Massimo Recalcati, La notte del Getsemani, che ho portato con me rientrando a Firenze dalla Campania. Recalcati si legge senza fatica. È un maestro di psicanalisi ma anche di stile. Ha il talento dello studioso e del narratore. Analizza, ma descrive anche con essenzialità ed efficacia drammatica ciò di cui parla. Egli, a mio giudizio, prova a fare qualcosa di difficilissimo in questo libro: si sforza di trovare un punto di equilibrio fra fede e scienza, di non tradire né l’una né l’altra, e di rileggere la figura di Gesù usando gli strumenti della psicanalisi senza alterarne però il messaggio e in alcuni passaggi anche attualizzandolo.
Ciò che lo affascina dell’uomo Gesù è un momento cruciale della sua vita: la notte del Getsemani, quella in cui egli si trova a essere solo, ed è costretto a fare i conti con il tradimento, l’abbandono, un un ‘negativo’ non più riscattabile; insomma, si misura con una dimensione tragica della vita, con cui si confronta teoricamente e praticamente anche la psicanalisi. Quella del Getsemani è una notte tremenda, che avvia l’ultima fase della sua vita, che è in netta discontinuità con quella precedente, vissuta come chiamata del desiderio, come libertà ‘dal peso del sacrificio della Legge’. La sua parola è quindi sovversiva in quanto apre una breccia nella Legge, ormai istituzionalizzata, e si rivolge contro i sacerdoti, i cattivi eredi, in quanto l’eredità autentica non va intesa come ‘conservazione mortifera’ ma come ‘movimento in avanti che punta a dare un compimento alla Legge senza ridurla a un corpo morto’; richiede quindi una discontinuità nella continuità. Gesù secondo Recalcati incarna la ‘figura radicale del desiderio’, il mistico che entra in conflitto con il religioso e con l’istituzione (p.37):
Gesù è, dunque, una figura radicale del desiderio. Se il desiderio è una forza che muove la vita, che rende la vita viva, egli è la massima incarnazione di questa forza al punto che strappa letteralmente la vita alla presa della morte, riporta la vita alla vita, non lascia mai che sia la morte l’ultima parola sulla vita. […]
La notte del Getsemani pone un’opposizione drammaturgica fra l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme acclamato dal popolo in festa e il momento successivo, in cui la luce splendente del giorno si muta con una cesura netta nel buio di una notte di dolore, in cui la sua parola viene (pp.15-16) posta in un angolo, e in cui lui stesso mette alla prova attraverso l’angoscia la sua parola, per mezzo di un attraversamento solitario, un momento di non ritorno che le darà un valore ancora più forte. Egli stesso annuncia ai discepoli la ‘passione imminente e la sua morte’, ma anche quello che accadrà da lì a poco, cioè il tradimento dei suoi amici e soprattutto di quello più fedele, del suo erede, cioè Pietro: tutto ciò che ha fatto sarà dimenticato, sarà assimilato a un comune bandito, e della sua gloria precedente sarà cancellato ogni ricordo. La sua caduta irreversibile e drammatica si farà simbolo di quella di ogni uomo, del tempo del dolore e della sofferenza che cancella in un baleno quello della gloria, ma allo stesso tempo necessaria, perché solo ‘chi conosce la propria caduta può conoscere la propria gloria’ e ‘la pienezza della vita non può essere separata dall’incontro fatale con il negativo di cui la morte è espressione’.
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Gesù però non ci porta nell’economia del sacrificio, caratterizzata dal rimborso illimitato, ma in quella dell’abbondanza e del desiderio. Nel Getsemani non sacrifica la propria vita ma la dona, cioè resta fedele al proprio desiderio, compie un gesto assoluto di libertà, che ha in sé stesso il suo fondamento, la sua pienezza e realizzazione.
In ogni pagina del racconto della notte del Getsemani Recalcati legge una lezione per l’uomo moderno, anche in quelle più drammatiche in cui si consuma il ‘trauma del tradimento’. Il traditore, infatti, non è mai uno sconosciuto, ma chi ci è prossimo, cioè una persona nella quale riponiamo piena fiducia, che rompe un patto simbolico fondato sulla parola, cioè colui ‘che mette la mano nel piatto dove mangiamo’. Non c’è nulla, infatti, di più intimo del condividere la stessa tavola, e da questa intimità nasce il tradimento. I traditori di Gesù sono Giuda e Pietro, ma sono figure fra loro dissimili. Pietro tradisce per paura e debolezza, per una umana fragilità, Giuda no. Il suo tradimento è in totale dissonanza con ciò che lui è, perciò ha un grande valore: ci insegna che si può non essere all’altezza del nostro amore o del nostro desiderio e che la contraddizione appartiene anche all’amore più autentico (p. 53):
[…] Le lacrime di Pietro insegnano qualcosa di essenziale sull’amore umano. È sempre possibile cadere nel baratro del tradimento, non essere coerenti con la propria parola, contraddirsi, sbagliare, fallire, tradire il proprio desiderio. Ma saper cogliere la propria incoerenza, la propria contraddizione, il proprio errore, il proprio fallimento, il proprio tradimento non impedisce l’amore, ma lo fonda, lo rende possibile, lo istituisce. Il pianto di Pietro non mostra la fine di un amore, ma la sua ripartenza dopo la caduta. L’amore ideale non esiste, l’amore senza mancanza e senza contraddizione non appartiene alla vita umana. L’insegnamento più alto delle lacrime di Pietro consiste nell’accogliere e non rigettare la propria mancanza, nel non rinnegarla come invece ha rinnegato il suo maestro. Nel fare della propria mancanza il fondamento del suo amore. […]
Recalcati disegna un ritratto umanissimo di Gesù, ma anche dei suoi discepoli. Nel suo dolore, nella sua solitudine può ritrovarsi qualunque uomo. Egli però ci insegna come superare questa condizione con la sua ultima e radicale preghiera in cui non si sacrifica, ma accogliendo la volontà del Padre, si dona accogliendo la propria storia. Gesù trascina Dio verso l’uomo, e ci mostra che la fede ‘più radicale non sorge dalla presenza ma dall’assenza di Dio. Essere cristiani, ricorda in conclusione Recalcati citando Bonhoeffer, ‘non significa affidarsi alla religione, ma essere semplicemente uomini’.