La raccolta di poesie La vestaglia del Padre (Aragno editore), di Alessandro Moscè, scrittore e critico marchigiano che collabora a varie testate, si inscrive in quella tendenza che possiamo far rientrare nell’antinovecentismo – i modelli illustri di Saba o Pavese gli sono ben presenti – tendenza che si pone lontano dall’eccessivo sperimentalismo come anche dalla ricercata oscurità.
Il libro è molto leggibile, ben strutturato con rimandi interni tra le varie sezioni che si compongono in un valido progetto complessivo: offre al lettore la possibilità di un viaggio interiore attorno a temi che tutti possiamo sentire nostri. A tal proposito val bene richiamare poche righe della preziosa prefazione di Roberto Cotroneo: «I temi ci sono tutti, fermi nel loro dolore, nell’assenza, nella consapevolezza delle nostre finitezze, con quella follia che sempre è una porta aperta su stanze che non conosciamo, sui corridoi bui delle nostre vite».
Ecco scorrere tra le pagine il tema classico della morte di un familiare, il turbinio dei ricordi, l’eredità di oggetti anche i più banali collegati al defunto che durano ben oltre la sua presenza fisica; il contatto con essi che sembra riportare, per così dire, la persona in vita, fino a sentirsela sulla pelle: «tu con la vestaglia regale del padre»; la «vestaglia, la più elegante, / lasciata con una macchia di sugo nel colletto»; «La giacca a quadretti mi sembra indifesa / e la prendo in mano con uno slancio imperioso, / la indosso per assomigliarti».
Di particolare rilievo nel volume la sezione sui malati psichici (la madre del poeta abitava, fra l’altro di fronte all’ospedale psichiatrico di Ancona) che nasce da visite effettuate da Moscè negli ex manicomi per inchieste giornalistiche e anche dalla lettura prediletta di Mario Tobino. Nella prima sezione del libro, “Senza tempo”, c’è un passaggio «oltre la soglia» della vita mortale, un respiro di eternità, un respiro lungo che riguarda anche la struttura del verso (si era detto del modello di Pavese): «Papà, quel passo oltre la soglia del reparto / strappato al tuo respiro, l’ultimo, il più lungo». Padre e figlio hanno condiviso molti di questi respiri fino alla fine e il libro si annuncia fin dalle prime battute innanzitutto come comunicazione diretta ad un assente, come una «missiva mai spedita ad un indirizzo» che il padre ha portato con sé.
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In particolare la comune passione per il calcio – come dimenticare le celebri poesie per il gioco del calcio del grande Saba e il verso «della festa – egli dice – anch’io son parte»? – ha unito padre e figlio ancora di più; essi sono andati allo stadio per festeggiare gioiosamente la propria squadra («curve festose») o si sono «amati davanti ad un televisore / nel prato verde di palloni spioventi / e di ingressi bianco-celesti in area di rigore».
L’amore per la Lazio del padre si accompagna al suo lavoro come geometra a Roma («Eri un geometra che mirava la sfera del cupolone»), città che con Ancona o Fabriano, luogo dove risiede Moscè, ha una rilevante presenza nella geografia del libro. La rievocazione del contatto del padre con i colleghi di lavoro a Roma, dei momenti di svago passati a mangiare il gelato ribattezzato con il nome di ”Giorgio Chinaglia” («un cono e una sfera vanigliata a forma di pallone di cuoio / per il vostro teatro in allegria»), mette al centro lo spirito di fratellanza e di comunione, il «teatro» umano, vitale, che antropologicamente lo sport riesce a creare e a ricreare. Si tratta nel libro davvero delle comuni «passioni messe in gioco», come scrive ancora nella prefazione Roberto Cotroneo.
L’evocazione di gesti più che di parole, che potrebbero essere di ognuno, sembra tracciare con leggerezza i tratti di una ‘universalità borghese’ a partire dal ritratto biografico di un padre: «cammini con la giacca slacciata / come a trent’anni sul porticciolo»; «un uomo distinto degli anni Sessanta / con la sigaretta Stuyvesant in bocca».
Le abitudini di un tempo si riflettono come in uno specchio nei gesti del figlio, come nel guardare in televisione lo sport, visto e rivisto innumerevoli volte: «la televisione mi fa compagnia / nel canale riservato al tennis, / il tuo preferito, papà», televisione che scandisce il corso di un’epoca rivissuta attraverso la memoria familiare: «quando la televisione era in bianco e nero / e la sigla di Carosello alla stessa ora / ci faceva sobbalzare sulle sedie».
Sono queste abitudini che danno tranquillità e stabilità alla vita quotidiana, che trasmettono il senso della forza e della vitalità attraverso il mito sportivo, ad essere sconvolte dalla morte, dalla fine della vita come movimento, abilità ed energia, ma il figlio, nel suo canto di accompagnamento per il defunto padre, immagina che ancora nell’al di là possano continuare: «Cerca lui, il nostro amico fratello, il nostro amuleto di granito, / Giorgio Chinaglia, e digli che non è mai morto». Parimenti la comunità degli affetti più cari, quelli familiari, attraverso la rievocazione in poesia continuerà ad esistere. Come ha scritto Enzo Rega su “La Recherche” «non suona strano che la rievocazione» dei calciatori della Lazio «si accompagni a quella dei propri familiari, perché tutti partecipi all’interno di quell’orizzonte domestico».
La poesia sembra qui assolvere alla sua antica funzione di rito, di preghiera, come una litania che possa propiziare la vita in un al di là inteso come continuazione sublimata dell’essere; una armoniosa dimensione definita efficacemente «la città delle melodie» che si lega al motivo della «meravigliosa infanzia» già provata in vita: «Quando arriverai nella città delle melodie saluta tutti, / i nonni e gli zii, i parenti visti poche volte». Ma lo sguardo del poeta si proietta anche all’esterno dell’intimità familiare tra le increspature del ‘mare della sofferenza’, e non solo nelle due ultime sezioni di ambiente ospedaliero, “Degenza” e “Follia”. Si susseguono, infatti, in particolare nella sezione “Stazioni” le evocazioni degli ‘ultimi’, come «la messicana» che «chiede l’elemosina al binario 6» o «il poveraccio» che «se ne sta diritto davanti la chiesa» e piange la «madre morta», mentre il «profumo di Dior» della donna che gli passa accanto «rimane una violenza».
Questo sguardo, questa sensibilità percettiva delle persone considerate scarti dalla società del ‘benessere’, che recano sul proprio corpo segni e ferite della marginalizzazione («l’etiope sfregiato sul volto»; il «barbone senza fiato») sembrano quasi un antidoto da contrapporre al mare dell’indifferenza e dell’impassibilità («Roma impassibile») dei sabati consunti senza sforzarsi di essere umanamente migliori, passati «tra corpi immensi e donne minute, / noncuranti che qualcuno sta morendo […] ». Nell’ultima sezione, vertice del libro, i marginali per eccellenza, i pazzi, compaiono con i loro nomi e le loro microstorie – con un ritmo antitetico «alla morte della memoria / dopo un inutile elettroshock» – storie di dolore che aleggiano tra le rovine, reali o interiori, di manicomi chiusi dopo la legge Basaglia:
C’era un manicomio qua, tra l’erba spagna
della radura perugina,
volti di plastica imbottiti
di barbiturici e scosse elettriche
che ciondolavano avanti e indietro
tra streghe e santi del firmamento.