Enzo Rega, figura di intellettuale appartato e schivo, oggi razza in estinzione ma per questo tanto più apprezzabile, è autore di diversi libri e interventi sparsi nei vari campi delle scienze umane, filosofia, critica della cultura, letteratura, cinema. Collabora all’“Indice dei libri del mese” e per diverso tempo ha collaborato alla rivista “Poesia” di Crocetti (ora distribuita da Feltrinelli). Con La linea dei passi (Edizioni Helicon), un diario di viaggio, scritto negli anni ’80-’90 ma pubblicato solo nel 2019, costituito da ventitré prose inframezzate a cinque lettere ad amici, dà alle stampe il suo terzo libro di narrativa, dopo Le albe inutili (1980) e Due volte futuro (2010).
Ma La linea dei passi non è facilmente inquadrabile in un genere, è un baedeker, un saggio, un libro di racconti, di lettere, di prose liriche, un diario intellettuale, perfino, per certi versi, diario psicanalitico. Insomma tutte queste cose e soprattutto un antiromanzo. Pur se sono evidenti i raccordi e richiami tra i racconti, attraverso i commenti, il monologo interiore, le libere associazioni, il labirinto delle citazioni, si delinea una struttura frammentaria, assicurata da un io narrante che guarda ai giganti del ’900: «Non ci siamo sgretolati perché eravamo già un asterisco di frammenti». Affermazione da prendere alla lettera per il racconto Amsterdam Skechts; qui la percezione della città olandese, sulla traccia dell’école du regard, va dall’interno di una casa verso l’esterno dei canali. Nell’abitazione si succedono vari riquadri, tra cui la danza di Petra e Margarete, la scena di sesso con lo «spettatore», che ha sempre lo ‘sguardo’ puntato sul grande trapezio, allegoria del suo difficile equilibrio e dell’oscillare degli eventi, «che pende al centro in luogo del lampadario» e che è forse derivato dal racconto di Kafka Il secondo trapezio.
Basta leggere poi l’ultimo capitolo Una mappa sotterranea, per capire come La linea dei passi sia una ‘linea dei libri’ che è dietro ogni città visitata («Il tuo sguardo segue le vie d’una città come pagine scritte»), per cui siamo di fronte anche ad uno zibaldone e ad un diario di letture; Calvino, Kafka, Musil, Handke, Benjamin, Robbe-Grillet per citare solo alcuni dei numi tutelari. Saper scrivere per Rega significa anche saper, coscienziosamente, rubare e avvertire tutta la piccolezza, la ‘viltà’ di fronte ai grandi: «Dove, vigliaccamente, ho nascosto gli echi del Walter Benjamin di Diario moscovita e Angelus Novus, libro fatto di echi di altri libri di un autore che ha teorizzato il citazionismo come modus construendi dell’opera letteraria? […] Altro dimenticherò. E altro non saprò di averlo rubato».
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L’itinerario dei viaggi tocca varie nazioni: Francia, Germania, Olanda, Repubblica Ceca, Regno Unito. In questo girovagare sono evocati alcuni poli particolarmente significativi. Il primo è quello di Genova, la città dove Rega è nato e dove ha trascorso l’infanzia, nonché meta dell’ultimo viaggio del libro di cui parla il racconto Ritorno all’albergo del Rosso. Di Genova come luogo d’origine narra anche il personaggio di Maria, in Barocco fiammingo, io al femminile sulle orme di Moravia o Pavese che compare una sola volta nel volume: «Eccolo il risultato di questo mio puzzle cromosomico. Nata a Genova, figlia di napoletani…». Toccante altrove, in Taccuino di viaggio, capitolo tutto costruito con aforismi, «la disperata rincorsa di un’immagine», il ricordo del padre su di un prato in Liguria, locus amoenus in cui «il bambino avidamente beve quell’aria e le parole» del genitore. L’altro polo è quello del paese – che pavesianemente entra in dialettica con la città – dove Rega insegna e risiede ormai da anni, Palma Campania, in provincia di Napoli, «colonia di una sgangherata metropoli», e da dove scrive la lettera a Gianfranco intitolata Neapel und Berlin. Ein brief (p. 54), con titolo tedesco in omaggio a Benjamin e alla grande cultura mitteleuropea, come antitesi al provincialismo, di cui sono intrisi i racconti. A Palma allude forse anche l’inizio del primo racconto: «La sera stendeva le sue trame sul paese addormentato…», da cui il protagonista si sposta nella vicina città alla vana ricerca dell’amore, venuto «in furore e matto» come Orlando se chiede ad una prostituta di essere amato.
Il polo mediano è quello di Bergamo, dove Rega ha insegnato e vissuto in gioventù, e anche Milano: «Milano alla fine ti annienta. Il suo ritmo […] finisce per massacrarti e gettarti, a pezzetti, ai margini». Nel volume vi sono vari riferimenti a poeti frequentati in questo periodo, di cui non viene indicato il nome, come Biagio Cepollaro, anche lui di origine napoletana ‒ identificabile grazie ad un verso tratto da Scribeide citato in Frammento milanese: Scribo in trista e tòrta lengua d’arcaico fatta e metaplasma…‒ con il quale l’io narrante condivide «per un po’ una mansarda in provincia» e le ‘avventure’ serali milanesi. Con un altro poeta ‒ forse Silvio Aman ‒ che somiglierebbe ad «un noto poeta dialettale dei nostri giorni», cioè Franco Loi, recentemente scomparso, discute di una rivista letteraria che non vedrà mai la luce: «lungo la strada del ritorno avevamo abbozzato il programma di una rivista letteraria che non avremmo mai fatto, ma era bello il solo parlarne. Di cosa non si parlava allora!».
Un altro poeta facilmente identificabile è Milo De Angelis; in epigrafe è riportata una citazione dal libro in prosa La corsa dei mantelli da cui Rega trae il titolo al volume. «Lungo le strade che portano a casa […] grandeggiano le ombre delle arcate, simili a quelle delle proprie ginocchia e degli innumerevoli luoghi che circondano la linea dei passi, in ognuno dei quali, in ogni palpito, c’è un agguato o un fratello». Vengono evocate le persone, grazie alle quali l’autore in gioventù si è formato accarezzando i suoi sogni letterari; quanta nostalgia ne deriva per il lettore che in più ha praticato e pratica la scrittura, per quella poesia non scritta, per quella rivista non nata e per l’incompiutezza di letteratura e vita!
L’incontro con De Angelis, che richiama episodi reali, come l’incendio della casa di via Rosales, dove Milo abitava negli anni ’80, evidenzia questo senso di ciò che si perduto per sempre:
Timidamente, con una timida sicurezza, entravo in quella mansarda nei pressi di piazza Sigmund Freud, in una casa al termine di una strada rossa […]. In quella soffitta, il poeta milanese, ancor giovane, ma già celebrità e maestro, mi sedeva di fronte, su uno sgabello e ascoltava sorridendo e rispondeva sommessamente […]. Il soffitto con le travi a vista scendeva fino al pavimento da un lato, dall’altro uno scaffale copriva tutta una parete, pieno di libri. Ora quei libri non ci sono più, distrutti dalle fiamme di un incendio, periti. Fra quelli anche il libro di Federigo Tozzi che il poeta mi aveva prestato insieme con una sua vecchia macchina da scrivere.
In La linea dei passi il viaggio o «come ricerca» o «come fuga» (p. 145) è sempre una esperienza di conoscenza di se stessi, indagando i mille volti di un’identità sfrangiata, disseminata, e i mille rivoli di letture che hanno contribuito a decentrarla, in un gioco di specchi e rifrazioni. In un libro di poesia, Indice dei luoghi, pubblicato da Rega nel 2011, per certi versi affine a questo volume, a partire dalla tematica dominante del viaggio, il personaggio che dice io, ammiccando a Pirandello, scrive: «Allo specchio / ho guardato nel mio occhio. / E già non mi ci sono più visto». Alla fine del viaggio, in Indice dei luoghi, forse più che al vedere, il protagonista sembra affidarsi al sentire, al percepire l’acqua che scorre, ogni passo cambiato in un avanzare fluido che riporta a casa, all’«acqua-madre», a Genua, che significa in latino ‘ginocchio’: la «città che disegnò / lungo l’arco del mare / il ginocchio piegato di un dio».
Ed è questa «memoria dell’acqua» che riconduce ancora una volta all’origine in La linea dei passi, dove si sente dapprima «il ticchettio martellio sciacquio dell’acqua» da una fontana (Ritorno all’albergo del Rosso), poi una pioggia tale che sembrerà far «affondare» Genova «nel suo mare», in uno scenario quasi biblico: «acqua da sopra e da sotto». All’albergatore, «il Rosso», uno sconosciuto, il narratore dirà come a se stesso: «Ci sono nato qui», e a lui vorrebbe raccontare la sua perenne ricerca dell’amore e l’ansia del ritorno, dicendogli: «che se fosse spiovuto l’avrei portata sotto i portici di XX Settembre, sotto l’arco di piazza della Vittoria, dentro, alle pendici dei monti che premono, dove il mare è solo più nell’aria, fra i prati dove, una volta, a sera, s’accendevano le lucciole e, insieme, lo stupore bambino».