Anche se si presenta come un libro-intervista Il tao della decrescita di Serge Latouche è molto di più. Lo definirei un libro ‘morale’ nel senso che in sole 104 pagine il grande economista e filosofo francese affronta i grandi i problemi del nostro tempo (dittatura dell’economia, crisi della democrazia, ecc.) e pone la grande questione della costruzione di una nuova paideia e della rigenerazione del nostro mondo.
Per Latouche la società della crescita non ha futuro: abitiamo in un pianeta finito con risorse finite e prima o poi bisognerà fare i conti con l’ineludibile realtà fisica. Quello della decrescita, spiega rispondendo a una domanda di Lanza, era uno slogan lanciato nel 2001 per contrastare un altro slogan, cioè quello dello sviluppo sostenibile, e per far capire che bisognava uscire dalla nozione della crescita. Il termine giusto non è quindi decrescita ma a-crescita, e sta a significare che ‘alcune cose devono crescere ma altre possono anche non crescere. Una società che mira alla crescita per la crescita, invece, è una società assurda e condannata al fallimento’ (p.17).
L’idea della crescita illimitata, spiega Latouche, è stata elaborata in Europa dal pensiero filosofico dal XVII secolo in poi. Fino a quel momento tutte le culture, comprese quelle antiche, educavano alla virtù importantissima del limite. Alcune forze negative, da sempre insite nell’uomo (la smodatezza, la dismisura, il desiderio insaziabile), dovevano essere frenate perché potevano portare alla distruzione della comunità. Con Mandeville prima, e poi con altri pensatori ‘la dismisura diventa invece un valore. Tutti devono cercare di fare quanti più soldi è possibile e questo determina, anzi persino legittima, la concorrenza sfrenata, ovvero la guerra di tutti contro tutti’ (p. 22). La felicità da quel momento viene ridotta a ricchezza, nasce un’ideologia della felicità come benessere materiale. L’infelicità, l’induzione di sempre nuovi bisogni diventa la molla per spingere la gente ad acquistare sempre più cose: insomma più si è infelici e più si spende. Per uscire da questa spirale secondo Latouche c’è una sola via d’uscita: bisogna ritrovare il senso della misura. Dobbiamo riappropriarci delle virtù del discernimento, della saggezza, e della prudenza. Dobbiamo maturare una nuova etica, un’idea della vita non orientata all’accumulo smodato della ricchezza ma alla frugalità e al bene comune. Il problema pedagogico, cioè dell’educazione dei giovani, deve ritornare al primo posto.
In Occidente i genitori hanno abbandonato per varie ragioni il ruolo educativo, che prima era svolto dalla scuola, ma con la nascita della televisione e della rete anche la scuola non educa più, e questo compito è affidato sempre più agli schermi. La scuola (pp. 52-53) ha monopolizzato la divulgazione del sapere, e negli ambienti extrascolastici si verifica una perversa manipolazione dei bambini e dei giovani. È in atto, inoltre, una degenerazione della democrazia che determina anche una corruzione delle istituzioni, e in particolare della scuola, che contribuisce a trasmettere ‘la religione della crescita e inculca la fede nel progresso, in particolare attraverso le nuove tecnologie’. Tale tipo di scuola scrive Latouche (p.53):
[…] è propedeutica anche alla banalità del male, perché la parcellizzazione dei saperi e la competenza professionale si sostituiscono al bene comune e rendono in pratica impossibile prendere coscienza del potenziale disastro a cui stiamo andando incontro. […]
Ma c’è una via d’uscita dalla società della crescita? Secondo Latouche è possibile costruire un modello di società alternativo, ed è per questo che quello della decrescita non è un progetto politico ma sociale. Per uscire dal modello della crescita illimitata, di per sé insostenibile, bisogna innanzitutto riscoprire il valore della cultura, specie di quella umanistica, che abbiamo totalmente rinnegato e che sta scomparendo sotto i colpi della società dei consumi e della tecnica.
Molti valori del mondo antico possono aiutarci a riprogettare la nostra vita e anche lo spazio fisico e simbolico che c’è intorno a noi, a rigenerare la nostra società, a realizzare il reincanto del mondo, il ritorno all’infanzia. Non è una via facile però da percorrere. Si tratta di un cammino che presuppone la riscoperta del senso del limite ma anche una nuova paideia che metta al centro non le competenze ma l’educazione al pensiero critico, e la decolonizzazione dell’immaginario collettivo dal mondo effimero delle merci, dalla distruzione del senso morale, dalla pubblicità che manipola le coscienze e le menti. Per fare questo ci vogliono maestri che educhino a una vita disciplinata, al contenimento delle passioni negative (avidità, sete di potere, egoismo), alla canalizzazione dell’energia verso il bello e l’armonia. Un vero pedagogo, conclude Latouche, ricordandoci che cosa significa essere maestro ed educatore, insegna ai propri allievi a diventare maestri, a essere autonomi, a non essere consumatori passivi o lavoratori disciplinati ma adulti, persone, cittadini, che conducono ‘una vita buona in un mondo afflitto dal male’.