Infuria il caldo di un’estate in anticipo e anomala. A causa della forte afa ho rinunciato alle mie passeggiate quotidiane, e ne ho approfittato per leggere un libro di Enzo Bianchi: Per un’etica condivisa. In questo bel saggio Bianchi fin dalle prime pagine pone una questione importantissima: l’assenza nell’attuale clima culturale e sociale italiano di un clima di confronto fra cattolici e non credenti nella mitezza.
Per poter affrontare le questioni etiche bisognerebbe, quindi, per prima cosa riappropriarsi della capacità di dialogare in maniera mite. Stabilire se ciò è ancora possibile non è cosa da poco. Sia da parte dei non credenti che dei credenti c’è un atteggiamento di rifiuto dell’ascolto dell’altro. I cattolici, secondo Bianchi, sbagliano quando avanzano la loro proposta di fede in maniera intransigente e con “arrogante contrapposizione a una società giudicata malsana e priva di valori” (p.4):
[…] Ora non è con questo giudizio e disprezzo dell’altro ritenuto incapace di etica, non è misconoscendo la pluralità dei valori presenti anche nella società non cristiana che si può stare nella storia e tra gli uomini secondo lo statuto evangelico. […]
Secondo Bianchi la difesa della propria sensibilità etica non dovrebbe mai impedire la comprensione delle ragioni degli altri; egli ritiene inoltre che il concetto di laicità cioè l’autonomia fra stato e chiesa, almeno in Occidente, sia ormai accettato da tutti e tutti considerano tale distinzione ‘liberatrice’. Però è anche vero che la società cambia e la nozione di laicità va adattata a ‘nuovi elementi socio-culturali’. È per questo motivo che i cristiani stessi devono portare il loro contributo alla costruzione della laicità e a quella dell’Europa, e la chiesa deve rinunciare alla tentazione di entrare nell’azione politica sfuggendo ai principi democratici. L’azione della chiesa deve restare nell’ambito profetico e non deve entrare invece con proposte tecniche nell’agone politico (p. 15). Il compito dei cristiani è di pretendere responsabilità politiche ispirate al Vangelo ma che poi si traducano in risposte pratiche ‘insieme a tutte le altre componenti della società, anche quelle non cristiane’ (p.15).
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L’assenza di un dialogo nella mitezza invece contribuisce a far incancrenire due grandi mali del nostro tempo: un nuovo anticristianesimo e “l’avvento di un uso politico della religione” da parte di forze politiche a essa estranee (p.19). Queste forze politiche si servono della fede come emblema identitario contro i nemici dello schieramento opposto determinando un arretramento su alcune importanti conquiste del passato, da parte degli stessi cristiani, prima fra tutte l’idea che il dialogo con i non cristiani fosse “urgente e appartenesse allo stile evangelico dello stare nel mondo”.
Bisognava infatti “accogliere una giusta laicità che garantisse a tutti la libertà religiosa, e i cristiani dovevano ‘assumere la misericordia, l’accoglienza, la compassione come abiti evangelici”. Questi valori, che la sua generazione aveva conquistato, secondo Bianchi si stanno perdendo in una società caratterizzata da una polemica chiassosa, barbara, in cui si stanno raccogliendo i frutti negativi di una incapacità di ‘reciproco ascolto’. Per ritrovare lo spirito del dialogo bisogna quindi farsi stranieri; sia i laici che i cattolici dovrebbero imparare a coltivare il campo della ‘stranierietà’, in quanto sentirsi tutti stranieri potrebbe aiutarci a cogliere l’altro nell’interesse e nella complessità della persona’. Non può esserci un dialogo pacato se non proviamo a capire l’altro, le sue ragioni, proponendo ma mai imponendo le nostre, e cercando con onestà intellettuale sempre la verità.
Non è vero, asserisce Bianchi, che la fede in Dio è l’unica istanza in grado di fermare il ‘decadimento morale’. Molte religioni senza Dio (p. 48) sono state efficaci almeno quanto la cristianità ‘nello scongiurare comportamenti mortiferi’. La fede per Bianchi è un atto di libertà dell’individuo, e non può essere ridotta a fini civili. L’umanità è una. Di essa fanno parte religione e non religione. La via della spiritualità (p. 65) è possibile per credenti e non credenti, anche per gli atei. È su questo terreno che è possibile per il monaco di Bose il dialogo, la ‘creazione di bellezza fra gli uomini, e soprattutto la costruzione di un’etica condivisa rispettosa di tutti, credenti e non credenti (pp. 66-67):
[…] No al nichilismo, dunque, ma allora emerge l’urgenza di riconoscere la presenza di una spiritualità anche negli atei e negli agnostici, capaci di mostrare che, se anche Dio non esiste, non per questo ci si può permettere tutto: persone che sanno scegliere cosa fare in base a principi etici di cui l’uomo in quanto tale è capace. […] Si tratta, per tutti, di essere fedeli alla terra, fedeli all’uomo, vivendo e agendo umanamente, credendo all’amore, parola sì abusata oggi e sovente svuotata di significato, ma parola unica che resta nella grammatica umana universale per esprimere il ‘luogo’ cui l’essere umano si sente chiamato. […]