Stesso prezzo, ma meno prodotto. La shrinkflation, quella particolare tecnica di marketing attraverso cui le aziende riducono la quantità nelle confezioni, mantenendo i prezzi sostanzialmente invariati. Secondo alcuni questa pratica potrebbe configurare una violazione delle norme a tutela dei consumatori, entra nel mirino dell’Antitrust.
Si tratta, quindi di una forma di inflazione nascosta, dato che è a tutti gli effetti una diminuzione del potere d’acquisto del consumatore che però non è immediatamente evidente come lo sarebbe, per esempio, un aumento del prezzo assoluto. L’efficacia della tecnica sta nella tendenza del consumatore a essere più propenso a prestare attenzione alla quantità di denaro spesa che alla precisa quantità di prodotto acquistata. Un noto esempio di questa pratica riguarda la nota multinazionale americana Coca Cola, che prima nel 2014 ha ridotto la dimensione della sua bottiglia grande da 2 litri a 1.75 litri, e poi nel 2017 ha ridotto la quantità nelle lattine da 330 centilitri a 300, lasciando i prezzi pressoché invariati.
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Di per sé, la pratica di shrinkflation, nonostante possa legittimamente essere considerata eticamente discutibile, non è illegale. Tuttavia, l’Antitrust ritiene che il fenomeno possa avere rilevanza ai fini dell’applicazione del Codice del consumo, ovvero il provvedimento che dal 2005 tutela i consumatori, e in particolare della sezione che proibisce le pratiche commerciali scorrette. Il direttore generale per la tutela del consumatore, Giovanni Calabrò, ha detto stanno «monitorando il fenomeno» per «verificare se possa avere rilevanza ai fini dell’applicazione del Codice del Consumo, con particolare riferimento alla disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette».
Stampa e consumatori hanno lanciato più volte l’allarme sul “restringimento” delle confezioni di prodotti soprattutto alimentari e per l’igiene della casa. Il problema, secondo il responsabile dell’Antitrust, non è la riduzione in sé della quantità di prodotto contenuta nella confezione, decisione aziendale prima facie legittima, ma la trasparenza di tale modifica nei confronti del consumatore. «In questo senso – spiega Calabrò- condotte quali la diminuzione della quantità di prodotto a parità di dimensioni della confezione, in assenza di un’adeguata avvertenza sull’etichetta frontale, potrebbero essere ritenuti meritevoli di approfondimento».
Nell’esposto che ha fatto partire l’indagine dell’Antitrust l’Unione Nazionale Consumatori segnalava alcuni aumenti visti in Italia negli ultimi mesi: le mozzarelle da 100 grammi invece che 125, il caffè da 225 grammi anziché 250 e le confezioni di the con 20 bustine e non 25. Ma anche, in corrispondenza del periodo pasquale, le colombe da 750 grammi vendute in packaging simili a quelle da un chilo. Nell’interpretazione dell’Antitrust l’elemento meritevole di approfondimento è quindi l’eventuale assenza di un’adeguata avvertenza sull’etichetta frontale.
Immediata la reazione delle associazioni dei consumatori. Il Codacons, che ricorda di avere segnalato la questione alle procure e agli stessi sceriffi della concorrenza, nel suo documento ricordava come l’Istat avesse già tracciato il fenomeno dal 2012 al 2017, rintracciando oltre 7mila casi in supermercati e rivendite con quasi 5mila prodotti di cui è stato modificato non solo il confezionamento ma anche il prezzo. Undici le classi merceologiche interessate, con picchi nell’ambito di zuccheri, dolciumi, confetture, cioccolato, miele (in 613 casi diminuzione della quantità e aumento del prezzo) e in quello del pane e dei cereali (788 casi in cui, però, si è riscontrata solo una riduzione delle confezioni). Bibite, succhi di frutta, latte, formaggi, creme e lozioni sono le altre categorie di prodotti a cui è bene prestare particolare attenzione.