Leuca “de finibus terrae”, come dicevano i latini. Leuca termine di tutte le vite, luogo obbligato di transito per accedere al paradiso. Leuca, punta più estrema del tacco d’Italia, una lingua di terra che si insinua spinosa tra due mari, salutando l’Albania, le isole greche e la Calabria a Occidente. E poco conta se il vero confine tra Ionio e Adriatico cada nel raggio otrantino: non importa a nessuno, lo apprendi dalla cartografia. È qua il Faro oltre il quale non c’è più niente. È qua la Madonna del Santuario proiettata nel cielo dalla violenza di un capitello corinzio. È qui che quando il vento soffia dal mare e porta nuvoloni carichi di tempesta, la sensazione è quella di trovarsi ai confini del mondo.
Leuca, Salento, un campo di forze, in cui coesistono tarantismo e turismo, fossili e rifiuti, muri a secco e trombe d’aria. Da un lato un mare terso, trasparente, quasi diafano, dall’altro una costa ruvida, punteggiata di grotte popolate di miti e antiche leggende: la grotta del drago, del diavolo, degli innamorati. Una terra ricca di aneddoti da raccontare, come quello di Leucasia, una bellissima sirena dalla pelle bianca e dagli occhi azzurri, con una chioma bionda lunghissima.
LEGGI ANCHE: Nick Cave, il rocker maledetto che ama la Bibbia
Leuca, il capo, come fine o un inizio. È una questione di prospettive. Leuca è una ripartenza per Rachele Andrioli che qui c’è nata, 33 anni fa. «Dove il mondo muore ho seminato la mia voce» dice in De Finibus Terrae, un canto appreso dal mare. «A Leuca ho avuto la percezione del tempo che scorre e della vita», spiega. «Ho compreso che non era una fine, ma una terra che piano piano stava crescendo».
Leuca come approdo e partenza. Terza porta d’oriente, con Otranto e Gallipoli. Da qui salpavano i romani per il Medio Oriente, qui approdarono turchi e spagnoli. Come il nonno di Rachele Andrioli, ammiraglio spagnolo. Qui continuano a sbarcare migranti «che ci condizionano e ci influenzano»: dagli albanesi, come Radi Hasa, il cui violoncello risuona in Te spettu e Luna otrantina, agli indiani, cingalesi, pachistani, vicini di Rachele nella casa nel centro storico di Lecce. «Nei due anni di pandemia ho condiviso molto con loro». Anche le canzoni di Nusrat Fath Ali Khan, fra cui Mast Qalander, un canto sacro sufi che Rachele riprende nel suo album.
Leuca è la parola chiave, il gesto che orienta, lo sguardo che mira dentro, una continua ricerca del germoglio nella terra, della conchiglia in un immenso mare. La terra lascia il suo battito musicale al mare. Rachele non è una sirena. Non è bionda, tutt’altro. Ma è Fimmana de mare, donna d’Oriente. «Essere una donna ai confini di una terra mi fa sentire come quando riesco a scorgere le montagne dell’Albania quando soffia il vento di tramontana. Essere una donna alla fine della terra per me significa respirare nel mare l’apertura verso il mondo». La sua voce non ammalia, è fuoco potenza luce calore emozione.
Leuca è un nome femminile. È donna. E il vento della femminilità soffia forte spinto dalle voci del Coro a Coro, ensemble di quaranta «donne che amano cantare», come le definisce Rachele. Un progetto di canto popolare condiviso che l’artista di Leuca conduce tra Lecce e Palermo. Donne di tutte le età e provenienze, appassionate di canzoni popolari, che vede le partecipanti formare un cerchio dal quale promanano parole e sonorità coinvolgenti e trascinanti. «Quando formiamo quel cerchio un po’ magico proviamo tutte una sensazione di benessere individuale e collettiva, diciamo che questa forma di canto è terapeutica», sottolinea Rachele. «Cantare aiuta a dimenticare i problemi, ad avere maggiore fiducia in noi stesse, ci fa sentire più forti in un’epoca dove l’emancipazione della donna è tuttora messa troppo spesso in discussione. Il coro lenisce, cura. Lo stare insieme ci fa sentire tutte uguali».
Leuca come macchia mediterranea, ulivi, muri a secco tipici della penisola salentina. E alberi di noci. «Dove cresce il noce è nata la mia voce», canta ancora in De finibus terrae. «Perché dove abitavo io, a Salve, c’era un giardino di aranci che cresceva all’ombra di un enorme albero di noci. Mio padre mi diceva che non potevo entrarci perché era un giardino segreto. Io allora pensai: “Se non potevo raggiungerlo, potevo fargli arrivare la mia voce con il canto”. E fu quella la prima volta in cui cantai». A quel giardino è rimasta legata, tanto da ricrearselo, nel suo piccolo, anche nella casa di Lecce. «Ho l’orto, allevo galline e tartarughe, ed ho tre gatti», ride.
Leuca come viaggio. Collaborazioni e incontri con le altre culture del mondo. Rachele Andrioli è una Ulisse che ci invita a “seguir virtute e canoscenza”. Offre una strepitosa interpretazione della poesia di Rina Durante Luna otrantina, strabilia quando si sdoppia in Tutt’egual song’ e criature, dove la si può scambiare per Enzo Avitabile, sembra una nuova Violeta Parra quando riprende il Manifiesto di Victor Jara. Perché Rachele Andrioli è talmente brava da saper spaziare tra la musica tradizionale e il ruolo della cantautrice, dalla musica radicata nel Salento alla world music, al jazz. In Finisterrae, il brano che chiude l’album, incrocia la sua voce con quelle di Ugia Pedreira, galiziana di Vilaronte, e di Elsa Corre, bretone di Douarnenez, donne che vivono e cantano nelle Leuca di Spagna e Francia. Anche in questo caso, non si tratta di una fine, ma di un inizio. Ovvero il seguito di Marinae, storie di donne da tre speciali punti di osservazione ai lembi estremi d’Europa: il capo De Finibus Terrae di Santa Maria di Leuca in Puglia, il Cabo Fisterra in Galizia e il Penn-ar-Bed/Finistère in Bretagna. «S’intitolerà Marinae, voci di donne alla fine della terra», annuncia.
Leuca è anche il titolo dello spettacolo che Rachele Andrioli presenterà il 14 luglio al Medimex di Bari per poi portarlo in giro per il Paese, facendo tappa il 30 luglio all’Alkantara Fest in programma a Pisano-Zafferana Etnea. Un live coraggioso perché Rachele Andrioli è in scena da sola. Tutta l’attenzione è concentrata sulla sua straordinaria voce, sugli strumenti musicali via via utilizzati (tamburo, chitarra, scacciapensieri, flauto armonico) e sull’impiego sapiente dell’elettronica (attraverso basi e loop station). Simbolo di sintesi fra tradizione e innovazione, ritorno e partenza, fine e inizio. Leuca, appunto.