Un’emergenza ma non per tutti. Nella crisi del gas qualche Paese ha trovato un’occasione di business irripetibile, che genera fiumi di denaro per chiunque oggi abbia combustibile da vendere in Europa, ora che la Russia con la guerra in Ucraina si è fatta scippare la posizione dominante che aveva nelle forniture di gas per l’Europa (secondo Eurostat, nel 2020 l’Unione Europea importava il 41,1% del suo gas naturale dalla Russia). Alla fine, Mosca è riuscita là dove Washington probabilmente avrebbe mancato l’obiettivo: aprire totalmente il mercato del gas in Europa agli Stati Uniti, che ora forniscono al nostro continente tre volte il gas che importiamo dalla Russia.
Prima della guerra In Ucraina, nessuno in Europa comprava gas americano perché era il carburante più costoso del mercato. Ma gli Stati Uniti, a marzo, hanno accettato di fornire 15 miliardi di metri cubi di gnl aggiuntivo ai mercati dell’Ue quest’anno, un obiettivo che probabilmente supererà. Fino a giugno 2022, gli Stati Uniti hanno esportato circa 57 miliardi di metri cubi di gas liquefatto, di cui 39 destinati all’Europa, secondo i dati di Refinitiv pubblicati a fine luglio. L’Europa nei primi sei mesi di quest’anno ha aumentato le importazioni del gas liquefatto del 60% e le metaniere con il prezioso carico sono arrivate soprattutto dagli Stati Uniti, che attualmente però stanno vivendo uno stop fino a novembre all’incremento delle esportazioni a causa dell’incendio che ha colpito l’impianto texano di Freeport Lgn, da cui arriva un quinto della produzione nazionale.
Nonostante le sanzioni e l’avanzata della concorrenza, Mosca continua a farla da padrona e a guadagnare. Anche se Gazprom quest’anno ha diminuito le esportazioni del 37,4%, nel primo semestre ha registrato utili netti per circa 41,5 miliardi di euro. Intanto, anche la Cina, che non lo produce, rivende il gas naturale liquefatto che gli avanza, data l’attuale debolezza di domanda energetica interna. Secondo il Financial Times, nei primi sei mesi dell’anno il 7% delle importazioni in Europa sarebbe arrivato da Pechino, che per ogni metaniera il cui carico viene ceduto incasserebbe qualcosa come 100 milioni di dollari. Il Qatar sta già assegnando pure la produzione futura, mentre con il progetto North Field East, il cui nuovo partner è Eni, permetterà di aumentare la capacità di export di GNL da 77 milioni di tonnellate per anno (Mtpa) nel 2017 a 126 Mtpa nel 2027.
In Europa stanno facendo enormi guadagni anche Norvegia e Olanda, che sono ricche di gas e si sono dedicati all’estrazione superando i vincoli ambientalistici. Il surplus commerciale della Norvegia ha raggiunto un livello record nel mese di luglio, con 153,2 miliardi di corone (15,6 miliardi di euro) che hanno superato il precedente record stabilito a marzo (138,1 miliardi di corone), secondo i dati pubblicati dall’istituto nazionale di statistica Ssb. Le esportazioni di gas sono più che quadruplicate rispetto al luglio 2021, raggiungendo la cifra record di 128,4 miliardi di corone (12,8 miliardi di euro). Anche l’Olanda, tra il primo e il secondo trimestre del 2022, ha raddoppiato il suo surplus oltre ogni previsione.
A fare affari in questo momento, quindi, sono i Paesi che hanno un surplus di gas, che in passato hanno investito nell’estrazione senza preoccuparsi tanto dell’impatto ambientale. Poi ci sono le aziende che beneficiano di politiche governative volte a calmierare i rincari energetici, e quindi hanno un vantaggio competitivo sui mercati, e i settori industriali che producono fonti alternative.
E c’è anche chi approfitta della debolezza di aziende stritolate degli aumenti per acquisirle più facilmente. «Ci aspettiamo una progressione di scippi di marchi italiani da parte di imprese estere», è l’allarme di Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, associazione che raggruppa i grandi nomi dell’agroalimentare. «Già da tempo le imprese sono in una condizione di svantaggio competitivo, ma ora l’aumento dei costi energetici le rende ancora più deboli e contendibili rispetto a realtà imprenditoriali europee e no, che godono di aiuti governativi. L’industria alimentare turca paga l’energia un decimo della nostra e invade i nostri scaffali con i suoi prodotti; in Spagna il governo ha introdotto per le imprese manifatturiere un sistema di prezzi amministrati». Scordamaglia sottolinea che «una impresa agricola su 10 sta per chiudere e una industria agroalimentare su quattro ha ridotto drasticamente la produzione. Si sta creando la situazione ideale per acquisizioni straniere se non verrà rafforzato e applicato con maggiore rigidità lo scudo della golden power in questo settore o non ci saranno compensazioni superiori a quelle dell’ultimo decreto Aiuti, assolutamente insufficiente».
I rincari del gas hanno avvantaggiato operatori in altri settori. L’impennata delle bollette ha messo in moto la domanda di sistemi di riscaldamento alternativi, a cominciare dai pannelli fotovoltaici. A dare una spinta al mercato è anche Bruxelles. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, li vuole obbligatori per gli edifici commerciali e pubblici entro il 2025 e per quelli nuovi residenziali entro il 2029. La crisi energetica e la paura dei razionamenti sta spingendo anche la domanda di stufe a legna e a pellet nonostante l’aumento dei prezzi. Secondo i dati 2022 raccolti dall’Associazione italiana energia agroforestali, a maggio c’è stato un balzo delle vendite di stufe del 28% rispetto ai primi cinque mesi del 2021, con una crescita del mercato dell’8,7%.