Shakespeare è un classico del teatro di tutti i tempi. Questo è indubbio. Eppure, è anche un grande contemporaneo. Non solo sapeva parlare agli uomini del Cinquecento ma anche a noi. È questo che sembra voglia dirci il regista Pier Paolo Pacini con la sua versione de La dodicesima notte, in prima nazionale al Teatro della Pergola di Firenze fino al 20 di questo mese. Per ridargli voce bisogna sentirlo però meno come un classico, e al contrario bisogna restituire freschezza ai dialoghi della sua commedia, tutt’altro che lontana da noi ma vicinissima, perché in fondo i problemi degli uomini sono da sempre gli stessi. Sentiamo quindi la sua voce vicina, quasi parte di noi, della nostra difficile modernità, declinata nella traduzione di Orazio Costa Giovangigli ma attualizzata e adattata alle esigenze sceniche da Filippo Gentili.
Un linguaggio non convenzionale, fatto di prosa e versi, che si salda in una sorta di riscrittura con tutto il sottotesto (i costumi, il disegno delle luci a cura di Elena Bianchini e Samuele Batistoni, la selezione della musica di sottofondo, ecc.). Poco a poco in questa nuova versione il non detto diventa a sua volta testo, e ben valorizza le capacità interpretative degli attori (Federica Lea Cavallaro nei ruoli di Viola e Cesario, Maddalena Amorini in quello di Olivia, Fabio Facchini in quello di Ser Andrea Gotafloscia, Davide Arena in quello di Sebastiano, Greta Bendinelli in quello di Maria, Giulia Weber per Malvolio, Marco Santi per il Capitano e Antonio, Federico Serafini per Orsino, Manuel D’Amario per Feste, e infine Luca Pedron per Ser Tobia de’Rutti) che riescono a dare corpo e vita ai personaggi, a sdoppiarsi, a variare adeguatamente i toni a seconda della scena, a tenere sempre viva e desta l’attenzione degli spettatori.
Perfetta è la sintonia fra la parte attoriale e la messa in scena fin dall’inizio dello spettacolo. C’è quasi un continuum fra scena e pubblico. Gli attori fanno ingresso, infatti, in scena arrivando dai lati della prima fila degli spettatori, in un istante in cui il sipario è ancora chiuso, e solo la musica scandisce con toni lievi inizialmente l’avvio dell’azione teatrale. Poi il sottofondo musicale si fa più concitato, quasi a voler mimare un’esplosione di vita, il rapporto intrinseco fra teatro e cosmo, come se il primo fosse una sorta di rappresentazione ridotta del secondo. Ma è anche un modo per rendere imprevedibile, inattesa, all’insegna della novità l’inizio dello spettacolo. È un gioco insomma abilissimo in apertura di attese, volutamente disattese, di armonie e di disarmonie, di contrasti che si risolvono nello scenario essenziale ma quasi surreale che si staglia dinanzi agli spettatori, di elementi doppi, che simbolicamente stanno a significare il tutto e allo stesso tempo il loro contrario.
Centrali in tutta la pièce sono i dialoghi, ripresi dal regista in un rapporto dialettico fra antico e moderno, finalizzati non a declinare l’antico ma la modernità. Ciò li rende spigliati, vivaci, immediati, imprevedibili, in un’alternanza di toni che va dall’elegiaco al comico, conditi dal gusto e dal gioco della parola, dall’amore incondizionato per la vita nelle sue contraddizioni. Emblematici sono i dialoghi fra Olivia e Cesario: qui la parola diventa portatrice di buon senso ma ha anche la capacità di muovere l’animo. La donna è infatti commossa dalle parole, dal femminile che si manifesta in una forma maschile, e ciò fa sì che la sua bellezza crudele si sciolga, assuma tratti insolitamente più umani, e che si innamori. L’amore in fondo è il vero protagonista di tutta la Commedia ed è declinato con leggerezza nelle sue varie accezioni: impossibilità dell’amore, l’amore come passione a cui non si può resistere, ma anche amore come rifiuto o come malattia. L’innamoramento della Signora segna la vittoria della finzione sulla verità. In un gioco di specchi, dove tutto è possibile, si verifica l’inverosimile.
Intrigo, follia, buffoneria, inganno hanno un ruolo centrale in tutta la Commedia, sono espressione di una gioia della vita che anima tutto il testo, motore dell’azione scenica ma anche dell’esistenza stessa stessa, intesa come dialettica fra essere e l’apparire. Le musiche di sottofondo a loro volta ci riportano continuamente al presente, a leggere i problemi che il testo pone in relazione al nostro tempo, in una sorta di universalità in cui viene indirettamente affermata l’oscurità del cuore umano, di cui solo in alcuni momenti epifanici (forse proprio in quelli rigettati dalla società come la follia, l’ebbrezza o la diversità) emerge la profondità e l’autenticità.
Le vicende rappresentate sono quelle dell’età di Shakespeare; la perizia del regista e degli attori sta però nell’averle collocate nella nostra contemporaneità, tragicamente dominata dalla disarmonia del presente. L’antico, insomma, come testo su cui costruire una rappresentazione del nostro presente, nel perenne gioco fra essere e apparenza, e a volte incapace di accettare che l’identità può essere non staticamente definibile, e che la saggezza possa essere non rigidamente determinata ma possa in qualche modo fiorire anche in comportamenti che giudichiamo erroneamente folli. Un inno, in conclusione, alla libertà in ogni sua forma!