Chi legge Un occidente prigioniero di Milan Kundera ha per un istante la sensazione che le lancette dell’orologio della storia siano state rimesse indietro. Crede di essere tornato al lontano 1945. In realtà non è così. Mai come in questo libro dalla scrittura militante, appassionata, lucida, il presente ormai diventato passato getta delle illuminanti ombre sul nostro tempo. Lo scrittore, infatti, ripercorre in due brillanti interventi (uno è del 1967 e l’altro è del 1983) la storia dell’Europa centrale del secolo scorso, dalla fine dell’Impero austro-ungarico alla nascita di piccole nazioni e allo spostamento dopo il 1945 del confine fra Europa occidentale e orientale più a ovest con l’inclusione a est di paesi che appartenevano per tradizione all’occidente.

Oggi il quadro geopolitico è cambiato ma restano valide alcune importanti intuizioni: le piccole nazioni come quella ceca dovevano fare i conti con quelle grandi e con il peso di alcune lingue che si andava rafforzando. I piccoli popoli potevano, quindi, difendersi da questo processo di assimilazione solo attraverso il peso culturale che erano in grado di trasmettere (p.26-27), cioè solo partecipando, senza rinunciare alla propria specificità, al comune spirito europeo.
Kundera difende il diritto del popolo ceco (e indirettamente di tutta l’Europa) alla diversità e alla libertà. Egli rifiuta in maniera netta ogni forma di provincialismo (la tendenza ad adeguare la molteplicità del mondo alla propria immagine), anzi giudica tale atteggiamento (p.29) una forma di vandalismo, una decontestualizzazione dal presente, che si manifesta anche in forme legali nella distruzione di una statua, un castello, una chiesa, un tiglio centenario. Per lo scrittore chi manca di cultura trasforma ‘la patria in un deserto privo di storia, di memorie, di echi e di ogni bellezza.’ È questo il motivo per cui il socialismo, che distingue dal fascismo che è antiumanistico, non doveva mettere dei limiti alla libertà di espressione della cultura, in quanto (p.30) ‘la repressione di qualsiasi opinione, inclusa la brutale repressione di false opinioni, va, in fondo, contro la verità, quella verità che si raggiunge solo attraverso il confronto di idee libere ed eguali’.
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Kundera lega il destino dell’Occidente a quello dell’Europa centrale. Egli ritiene che il crollo, dopo la Prima guerra mondiale, dell’Impero austro-ungarico abbia causato la frantumazione dell’Europa centrale in tante piccole nazioni e la fine di un’esperienza culturale che aveva raggiunto la sua massima espressione nel ‘crogiolo letterario centro-europeo’. Quelle piccole nazioni sono i vinti, gli outsider (p.63) ma anche l’emblema della vulnerabilità di tutta la storia europea (pp.63-64):
[…] Ecco perché in questa regione di piccole nazioni che ‘non sono ancora morte’ la vulnerabilità dell’Europa, di tutta l’Europa, si manifestò con più chiarezza e prima che altrove. Nel mondo moderno, dove il potere tende a concentrarsi sempre di più nelle mani di pochi grandi, tutte le nazioni europee rischiano infatti di diventare ben presto piccole nazioni e di subirne la sorte. In questo senso, il destino dell’Europa centrale appare come un’anticipazione del destino europeo in generale, e la sua cultura acquista di colpo un’estrema attualità. […]
L’Occidente non si è accorto della scomparsa dell’Europa centrale. Non è una dimenticanza casuale. È il segno invece di un’epoca, di un tempo, cioè dell’inizio di una fase storica in cui l’Europa è al tramonto, o almeno è la prova tangibile che la cultura ha perso la propria centralità: ha ceduto il suo posto, non è più in grado di ‘forgiare l’unità europea, di costituirne il fondamento (p.67)’:
[…] Nel frattempo la pittura ha perso la sua importanza, è diventata un’attività marginale. Forse perché non era più di qualità? O perché sono venute meno la passione che ci ispirava e la capacità di comprenderla? Comunque sia l’arte che determinò lo stile delle varie epoche, che per secoli accompagnò l’Europa, ci sta abbandonando, o meglio: siamo noi che la stiamo abbandonando. […]
I grandi scrittori e i grandi artisti (p.70) non sono più dei rappresentanti spirituali. La vera tragedia, insomma, non è il confine a est, non è la Russia ma l’Europa stessa, perché non è più sentita come un valore. Ma ciò è accaduto (e non oggi ma già nel secolo scorso!) perché l’Europa ha perso il suo ‘cemento intellettuale’, la sua ‘unità spirituale’. In altre parole, ha abbandonato la cultura, la possibilità di un pensiero ‘forte’ che tenesse insieme i vari popoli europei.