Il Governo riprende il controllo sulle esportazioni delle armi. Il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale Antonio Tajani, ha approvato un disegno di legge che introduce modifiche alla legge 9 luglio 1990, n. 185, sull’import-export di armamenti e, di fatto, propone di rimettere nelle mani della politica, e non più di un’agenzia indipendente, le decisioni riguardanti i criteri per il commercio delle armi.
Lo riferisce una nota di palazzo Chigi: «Si interviene, in particolare, sul meccanismo con il quale i divieti alle esportazioni vengono applicati, per eliminare alcune incertezze interpretative, senza modificare nel merito la disciplina di merito». L’obiettivo dichiarato, dunque, è quello di eliminare gli intoppi burocratici e dare una chiara impronta politica nel controllo delle movimentazioni internazionali del materiale di armamento. Per le associazioni pacifiste non è nient’altro che la formalizzazione di una tendenza già in atto, quella della sempre maggiore liberalizzazione della guerra.
Ma l’obiettivo vero è un altro: dare un ulteriore sostegno all’industria militare. Quello che il governo propone sono la creazione di un Comitato interministeriale (che valuti il rilascio di licenze di esportazione al posto dell’attuale Uama, l’Unità per l’autorizzazione in materia di armamento) e la riduzione delle tempistiche di rilascio delle licenze. Interventi che l’industria militare chiede da due o tre anni.
La legge 185/90 prevede che le aziende produttrici di armamenti chiedano allo Stato le autorizzazioni ad esportare e vieta di fornire armi a Paesi in conflitto armato o che violano i diritti umani. All’epoca si trattò di una norma all’avanguardia, che ispirò la giurisprudenza internazionale. A vigilare su tale processo c’è l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama), che adesso con la modifica di governo viene svuotata delle proprie funzioni. Con i cambiamenti proposti dal governo Meloni, infatti, la decisione torna di fatto in mano alla maggioranza: il comitato sarà infatti presieduto dalla Presidenza del Consiglio e composto dai ministri degli Esteri, dell’Interno, della Difesa, dell’Economia e del Made in Italy. Saranno loro a formulare gli indirizzi generali per l’applicazione della legge 185 e delle politiche di scambio nel settore della Difesa.
«È preoccupante questa ipotesi del governo perché va a concretizzare delle modifiche alla legge 185 che vengono paventate da tempo, ma non nella direzione giusta, ossia quella di maggiori controlli e allineamento alla posizione comune europea e al Trattato sul commercio delle armi del 2013, ma vanno appunto verso una liberalizzazione. Le motivazioni addotte sono del tutto risibili. Si dice ad esempio che il comparto della Difesa sia basilare per l’economia dell’Italia, quando invece ha un fatturato inferiore all’1% del Pil, oppure dicendo che si devono velocizzare le autorizzazioni. No, le autorizzazioni vanno rilasciate nei termini giusti e facendo tutte le valutazioni del caso, non è una questione di velocità. Inoltre l’export militare sta crescendo negli ultimi anni, quindi non si capisce che tipo di lamentele possano avanzare le industrie che vedono riconosciute sempre più autorizzazioni, tenendo conto che l’unico blocco stabilito sulle bombe all’Arabia Saudita e agli Emirati è finito. Inoltre, sta circolando l’informazione che il 70% del fatturato dell’industria delle armi derivi dall’export, il che vorrebbe dire circa 12 miliardi sui 17 totali, ma in realtà i dati ci dicono che è sui 3 miliardi. Sono tutte motivazioni che cercano semplicemente di reintrodurre questo comitato solo per evitare che ci sia qualcuno che controlli veramente quelle che sono le attinenze con i criteri stabiliti per le esportazioni», spiega Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne di Rete Italiana Pace e Disarmo.
Non è una questione legata al solo governo Meloni: se oggi l’industria militare vive una congiuntura favorevole, è da qualche anno e da qualche governo che si prepara il terreno, con gran parte delle forze politiche favorevoli al cosiddetto government to government, ovvero alla firma di contratti di vendita tra governi che poi si traducono direttamente in commesse militari per le aziende. È una lunga marcia, che oggi arriva al cuore della questione: quello dell’export. Perché qui non si tratta solo di spese militari, di quanto cioè l’Italia spende per le armi; qui si tratta della destinazione delle nostre armi. Dalle analisi compiute da Rete Pace e Disarmo, sappiamo che negli ultimi anni le autorizzazioni alla vendita hanno riguardato sempre più spesso i paesi del Mediterraneo, dell’Africa e del Medio Oriente.
La legge 185 del 1990 era riuscita a «spostare» l’invio delle armi italiane, dietro a svariati scandali negli anni ’70 e ’80, da destinatari problematici a paesi alleati, Nato e Ue. Ora avviene il contrario ed avviene perché la 185 è stata già erosa. Ma non erosa del tutto, da cui la necessità governativa di una riforma per facilitare ulteriormente l’export di armi. Una necessità che nasce proprio dalle vittorie della società civile, riuscita negli ultimi anni a far votare al parlamento prima la sospensione e poi il blocco dell’invio di bombe e missili ad Arabia saudita ed Emirati arabi.
«Non è un caso che certe cose si facciano ad agosto – ha evidenziato la Rete italiana Pace e disarmo – Vogliono evitare che qualcuno controlli veramente quelle che sono le attinenze con i criteri stabiliti per le esportazioni». E il pensiero va ovviamente al conflitto in Ucraina, con le pressioni Nato e l’aumento della spesa per il riarmo. Che ci sia qualche correlazione?