È una mattina d’autunno. Leggo Dell’ultimo orizzonte di Luigi Fontanella. Mi immergo nel suo mondo di ‘case fuggenti’ e di ‘luci intrecciate’ che evocano in rapidi flash visioni di dolore (tunnel di nebbia, ecc.) e un’età felice perduta, cioè quella dell’infanzia.
In questo suo ultimo libro il poeta raccoglie in un macrotesto tutta la sua opera poetica. L’intenzione è certamente non solo quella di ordinare e autointerpretrare la sua vasta produzione ma anche di ripercorrere il viaggio della sua esistenza. Quello di Fontanella è un viaggio poetico ma anche fisico. È fatto di treni, stazioni (p. 18), spostamenti in taxi, ecc. Incontra cose (segnali, pali, telegrafi, tralicci volanti, ecc.) ma anche persone, di cui a volte registra un gesto, un atto come quello del dondolare che si carica di tragicità e solitudine (p. 20).
Scorro via via che leggo le pagine. Mi lascio guidare dai titoli. Mi colpisce Nedelia. Il nome della madre del poeta. Le figure della madre e del padre del poeta sono centrali in questo libro: sono quelle reali, cioè storicamente vissute ma assumono una forte valenza simbolica. Quello di Fontanella è un epos familiare e degli affetti. Struggente in questo quadro sono i versi dedicati a Nedelia (p. 29) che sempre affiora come figura giovanissima, quasi bambina rispetto al padre, delicata, fragile e forte nella sua bellezza.
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La morte dei genitori segna Fontanella come uomo e vicende varie lo portano a trasferirsi negli Stati Uniti dove insegnerà Letteratura italiana alla States University di New York. I segni di questo passaggio cruciale nella sua vita mi sembra di ravvisarli nelle liriche di D’un mondo nuovo, che ben esprimono un altro aspetto della sua natura, cioè il desiderio di scoperta, il gusto della vita, una naturale propensione al viaggio. Si tratta di versi molto intensi che si aprono con una meditazione sulla poesia, sulla sua poesia, sulla sua mano che scrive (ritorna più volte nel libro l’immagine della mano e delle mani), sul presentimento di una presenza, di un Altro che scrive al suo posto.
Senza accorgermene sono alla seconda parte, a Parusìe. Perché questo titolo?- mi domando. È una chiara allusione al ritorno, o a dei ritorni. Si tratta di un tema già anticipato nella lirica Terra del tempo della sezione precedente. Non è però qui l’idea platonica nella realtà sensibile né la venuta del Cristo ma un presentimento che porta il poeta a costruire quello che lui a pagina 93 chiama un ‘quadro trasparente’, cioè a mio giudizio una riappropriazione del vissuto, in cui c’è chi appare e chi scompare. È una dimensione altra già anticipata in Ceres (Come in sogno) di ‘un qualcuno che aveva chiesto’ (p. 65, v. 14) di restare con lui, che l’accompagna nel viaggio; questa presenza è avvertita anche in una sera d’inverno (Silhouette) dopo una cena al Kameda, in cui sente di non essere più ‘inseguito’ e non più ‘inseguitore’, e coglie i contorni di una figura o controfigura, un’immagine dell’altro ma anche di se stesso. Queste presenze/assenze si snodano in tutto il libro al confine fra visione, sogno, memoria (p.107), e si sostanziano nella figura dei ‘Grandi trasparenti’ (p.111), in cui c’è ancora un Qualcuno o Qualcosa che lo accompagna.
Continuo la mia lettura. A pagina 128 mi colpisce l’immagine del lago e dello specchio. La mia memoria testuale mi ricorda che anch’essa è ricorrente nel libro e che è spesso associata a figure che affiorano, a fantasmi e presenze. La ritrovo poco dopo nelle liriche Come in uno specchio, in cui c’è il senso di una rinascita e dove si fa strada l’idea che non c’è morte, che tutto continua a esistere (p. 138). Idea che ritrovo in Tuscolo, dove alla coppia inseguito/inseguitore si sostituisce quella tradito/traditore e il viaggio si sostanzia nell’idea che non c’è partenza (p.143).
Eccomi alle liriche di Dentro lo sguardo. Lo sguardo, penso, è fondamentale in questo libro, ed è sorretto da un doppio movimento: dentro/fuori. Centrale è ciò che è riuscito a trattenere in sé nell’atto stesso del vedere: un’alba, una ragazzina scalza e senza fisionomia, una mano invisibile che apre e rinserra e apre (p. 147). Il poeta non è più un inseguitore, ha domato la sua inquietudine, è in sintonia con il tempo che è fermo, trattenuto nell’atto stesso di esistere (p. 148).
Disunita ombra è incentrata sul tema del sonno, della notte, che prefigura quella della morte. C’è un paesaggio diverso fatto di immagini più forti (occhi che rotolano oltre il recinto di spalti, gente muta, un autunno di foglie e maschere), e il poeta assume le vesti di un ‘perverso fruitore’ (pp. 159-60). La dimensione onirica e visionaria la ritroviamo anche in Bertgang e il senso della gioventù perduta e dell’avvicinarsi della fine sua esistenza in tutta la terza parte (L’adolescenza e la notte, Canto del distacco, Monte stella) ma anche un’idea della vita ormai matura, intesa come dono, miracolo, apparizione (p. 263 Eirénē). È questa nuova sensibilità che credo animi l’ultima parte del libro, cioè la leggerezza ritmica e compositiva del Il movimento dei rami e il pensoso andamento filosofico-narrativo del Lo sperdimento, con il quale mi piace chiudere questa mia breve lettura della poesia di Fontanella (p. 299):
[…] l’anima attende la luce eterna…
Così il poeta amico di Eusebio…
Ma stamattina –
stava appena spuntando l’alba –
sopra il lucernario nel bagno,
chissà come lì caduta,
c’era proprio una stella… […]