Oltre alla manovra, il governo Meloni giunge all’accordo anche sulla riforma costituzionale. Una riforma tagliata su misura dal centrodestra, che prova a cambiare la Costituzione mettendo dentro tutte le battaglie di Meloni e dei suoi alleati: l’elezione diretta del premier (in realtà una variazione sul tema rispetto al presidenzialismo promesso prima del voto del 2022) ma anche una travagliata norma anti-ribaltoni, lo stop ai governi tecnici e infine lo stop alla nomina di altri senatori a vita.
«Abbiamo sulle nostre spalle una responsabilità storica: consolidare la democrazia dell’alternanza e accompagnare finalmente l’Italia nella terza Repubblica», ha detto la premier Giorgia Meloni. Stando all’ultima bozza diffusa, al presidente della Repubblica non spetterà più il potere di nomina del premier (come prevede oggi l’articolo 92), ma solo quello di conferire l’incarico in base al risultato delle elezioni, mentre manterrà il potere di nomina dei ministri, su indicazione del capo del governo. Il presidente del Consiglio incaricato ha a disposizione due tentativi per ottenere la fiducia: se falliscono c’è lo scioglimento obbligatorio di entrambe le Camere (sparisce la possibilità di scioglierne solo una) e il ritorno al voto.
Prevista anche l’abolizione della figura dei senatori a vita di nomina presidenziale, una vecchia proposta di Fratelli d’Italia: la carica continuerà a essere attribuita (di diritto) solo agli ex capi dello Stato. La bozza infatti abroga il secondo comma dell’articolo 59 della Costituzione, che attribuisce il potere di nomina al Quirinale. L’ultimo articolo del testo, rubricato “Norme transitorie”, precisa però che «fino al termine del loro mandato, i senatori di diritto a vita nominati ai sensi del previgente secondo comma dell’articolo 59 restano in carica».
A giudicare dalla storia recente è una vera e propria vendetta, perché i senatori a vita, per quanto pochi, votano e possono decretare la salvezza o la condanna delle maggioranze. Di fatto il centrodestra è ostile perché i senatori a vita sono prevalentemente di centrosinistra. E come tali votano la fiducia a governi di area o di larghe intese. La storia più o meno recente è costellata di casi celebri. Con la maggioranza sempre in bilico a Palazzo Madama, per Prodi i senatori a vita furono davvero vitali, a partire dal giorno in cui Sergio De Gregorio, eletto con Italia dei Valori, decise di passare con Forza Italia. Da quel momento Scalfaro, Levi Montalcini, Andreotti, Colombo, Ciampi diventano ‘avversari’ del centrodestra che per colpa loro vide vanificati seduta dopo seduta gli sforzi per far cadere il governo. Dei preziosi voti dei senatori a vita si finisce per parlare ogni volta che bisogna salvare un governo. Da ultimo, prima delle larghissime intese draghiane, è stato il Conte bis a confidare oltre che nei Responsabili di Bruno Tabacci e degli eletti all’estero, anche nei voti di tre senatori a vita, Renzo Piano, Carlo Rubbia e Liliana Segre.
C’è, infine, una “norma anti-ribaltone” che consentirà al presidente della Repubblica, in caso di caduta del governo, di affidare un nuovo incarico solo al premier dimissionario o a un altro parlamentare della maggioranza uscente, allo scopo di «attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha chiesto la fiducia delle Camere». Tramontata, invece, l’ipotesi di introdurre anche da noi il meccanismo della “sfiducia costruttiva” presente in altri Paesi (ad esempio in Spagna) in base al quale, per sfiduciare il governo, i parlamentari devono indicare il nome di un presidente del Consiglio alternativo, che ottiene automaticamente l’incarico in caso di approvazione della mozione.