Deportare 2,3 milioni di palestinesi dalla Striscia di Gaza al Sinai, in territorio egiziano. È una delle opzioni suggerite dal Ministero dell’Intelligence israeliano per la gestione della popolazione di Gaza al termine della guerra, secondo un documento redatto lo scorso 13 ottobre e pubblicato qualche giorno fa da Wikileaks. Ma anche lo “spostamento” dell’Autorità Nazionale palestinese (ANP) nella Striscia, con la quale replicare il “modello” di gestione “congiunta” della Cisgiordania, dove l’autorità civile sarebbe in mano ai palestinesi e quella militare alle Idf, oppure la promozione di una “nuova leadership palestinese”, che rimpiazzi Hamas dopo la sua distruzione.
Sono queste le tre “soluzioni” prospettate per Gaza una volta finito il conflitto. Anche se nella scala delle priorità di Israele, la distruzione di Hamas precede l’elaborazione di un progetto realistico per il dopo-offensiva. Il primo ministro Binyamin Netanyahu, per il quale la guerra contro Hamas costituisce “una lotta per l’esistenza” dello Stato ebraico, ha dichiarato: «Questa è la nostra seconda guerra d’indipendenza».
Il trasferimento definitivo della popolazione di Gaza nel nord del Sinai configurerebbe una pulizia etnica nella Striscia e ha soprattutto già incontrato l’opposizione dei possibili Paesi coinvolti. L’Egitto, che aveva inizialmente proposto in alternativa di spostare i profughi nel deserto del Negev, ha infatti già rimarcato la sua irrazionalità, se è vero che, anche ignorando i dirimenti aspetti umanitari, un trasferimento di 2,5 milioni di palestinesi di Gaza nei campi profughi del Sinai darebbe verosimilmente luogo ad attacchi verso Israele, e nello specifico l’emersione di nuovi gruppi radicali, proprio come avvenuto nei campi profughi della Striscia con la nascita di Hamas. Il Cairo solo alcuni giorni fa, ha sospeso e denunciato MadaMasr, uno dei pochi quotidiani indipendenti rimasti nel Paese, per “danni alla sicurezza nazionale e invenzione di notizie” proprio per aver pubblicato un report che alludeva alla possibilità di un trasferimento dei palestinesi nel Sinai.
Anche gli Stati Uniti, tuttavia, hanno già fatto sapere in modo esplicito di essere contraria allo spostamento permanente della popolazione al di fuori della Striscia, nonostante lo stesso documento caldeggi l’idea che Tel Aviv chieda proprio agli Usa di fare pressione sul Cairo affinché accetti una simile soluzione, così come su altri paesi come la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar. Si opporrebbero anche i Paesi che il documento cita come possibili futuri approdi per i rifugiati palestinesi, cioè il Canada, la Grecia e la Spagna, i cui ministri in questi giorni hanno definito quanto sta accadendo a Gaza come un «genocidio»
C’è poi la seconda opzione, quella che prevederebbe di replicare il “modello Cisgiordania” attribuendo all’Anp il governo di quella Striscia di Gaza in cui vanta un radicamento residuale. Ma non è di difficile attuazione non solo per aspetti legati al consenso che l’Anp non ha. Il problema principale «sarebbe il mantenimento dell’occupazione militare senza il sostegno degli insediamenti coloniali». Ciò provocherebbe il conseguente «rischio di pressioni internazionali per il ritiro delle truppe» con Israele che potrebbe in tal caso essere considerata una potenza coloniale con un esercito occupante, in una situazione ancora peggiore di quella in Giudea e Samaria. Anche se, secondo le Nazioni Unite, Israele è già un Paese occupante anche nella Striscia.
Infine, ci sono dei precedenti non proprio fortunati, che potrebbero essere associati anche alla terza ipotesi, cioè quella della promozione di una “nuova leadership araba” che rilevi il potere di Hamas. Entrambe queste strade, infatti, ricordano in modo sinistro quanto realizzato dagli Stati Uniti sia in Afghanistan che in Iraq.
Nel caso afghano, dopo aver scacciato i Talebani, Washington decise di investire sulla figura di Hamid Karzai, che poi diventò presidente dal 2004 fino al 2014, venendo anche rieletto in un processo elettorale in cui è stato accusato di brogli: sono anni in cui la corruzione nel Paese cresce a dismisura e nei quali quest’ultimo veniva definito “sindaco di Kabul”, in riferimento alla sua scarsissima popolarità al di fuori della capitale. Ancor più artificioso il mandato dell’ex presidente Ashraf Ghani che dopo una carriera negli Stati Uniti e alla Banca mondiale nel 2014 viene riconosciuto dal Comitato elettorale afghano come legittimo vincitore delle elezioni, nonostante in prima battuta fosse arrivato secondo con un notevole distacco dall’altro candidato, Abdullah Abdullah. I mandati di Karzai e Ghani sono alla base delle ragioni che hanno poi determinato il ritorno dei Talebani che hanno ripreso il potere nel 2021.
In Iran il piano concepito dall’allora “governatore” statunitense dell’Iraq, Lewis Paul Bremer, stabilì lo smantellamento dell’Esercito iracheno, la messa al bando del partito Ba’ath in ogni sua forma e un artificioso trasferimento dei poteri sostanziali alla minoranza (oggi maggioranza) sciita, a lungo discriminata da Saddam Hussein. Ciò produsse quasi nell’immediato mezzo milione di disoccupati, la latitanza di migliaia di militari che poi si “ricollocheranno” anche nell’Isis qualche anno dopo, una inarrestabile insorgenza armata irachena, nonché il graduale e quasi naturale spostamento dell’Iraq “sciita” sotto la sfera di influenza dell’Iran, nemico giurato degli stessi Stati Uniti.