Separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante, due Csm entrambi presieduti dal Capo dello Stato e una Alta Corte disciplinare. Ci sono tutti gli interventi annunciati, e al centro del dibattito degli ultimi mesi, nella riforma costituzionale della giustizia, che porta la firma della premier Giorgia Meloni e del Guardasigilli Carlo Nordio, approvata dal Consiglio dei ministri. Il provvedimento passerà ora all’esame del parlamento. Essendo un disegno di legge costituzionale, il suo iter sarà molto lungo: ciascuna delle due camere dovrà esaminarlo e approvarlo due volte, con votazioni che devono avvenire ad almeno tre mesi di distanza l’una dall’altra. Se nelle ultime due votazioni non ci dovesse essere una maggioranza dei due terzi a favore della riforma, questa potrebbe poi essere sottoposta all’ulteriore verifica del referendum confermativo. Insomma, non è qualcosa di imminente, ma se ne sta già parlando molto anche perché il provvedimento interviene su questioni molto dibattute.
La proposta, articolata in otto articoli, modifica la Costituzione per creare due distinti Consigli superiori della magistratura (Csm): uno rivolto ai giudici e uno ai pubblici ministeri (pm), entrambi presieduti dal presidente della Repubblica. Questa separazione vuole differenziare nettamente i percorsi di carriera tra chi giudica e chi accusa, eliminando qualsiasi possibilità di passaggio da una parte all’altra. Le toghe possono esercitare due funzioni. Una è la funzione giudicante, svolta dagli organi giudiziari (i giudici) e consiste nel compito di decidere le controversie o di pronunciarsi sugli affari di loro competenza. La funzione requirente è invece esercitata dai magistrati che svolgono attività di “pubblico ministero” e hanno il compito di esprimere richieste o pareri in vista delle decisioni degli organi giudicanti.
Attualmente, i magistrati possono cambiare ruolo, ma solo una volta e solo nei primi dieci anni di carriera, una pratica comunque poco frequente. Secondo dati de Il Fatto Quotidiano, dei 12mila magistrati assunti dal 1965 a oggi, il 74% non ha cambiato percorso di carriera. Nella stragrande maggioranza, si tratta di pm che decidono di fare i giudici; i casi inversi sono più rari.
Della opportunità di prevedere carriere separate per pm e giudici si discute in Italia da decenni. Il dibattito era stato già affrontato, in effetti, all’interno dell’assemblea costituente che tra il 1946 e il 1947 scrisse la Costituzione repubblicana. Ma è soprattutto a partire dagli anni Novanta che il confronto s’è fatto più acceso. In particolare scaturirono diverse polemiche dalla riforma del Codice di procedura penale, promossa nel 1988 dal ministro della Giustizia Giuliano Vassalli. Giurista di grande fama, con alle spalle una carriera di partigiano antifascista, con la sua riforma Vassalli introdusse in Italia un processo penale d’impianto accusatorio e non più inquisitorio, com’era quello previsto dal Codice Rocco, introdotto dal regime mussoliniano nel 1930 e rimasto fino ad allora in vigore. Secondo il vecchio codice, spettava al giudice istruttore ricercare le prove nel corso delle indagini e sulla base delle evidenze raccolte emettere una prima sentenza di colpevolezza o di rinvio a giudizio (modello inquisitorio); il nuovo codice prevedeva invece una divisione netta di ruolo e di funzioni tra il magistrato che coordinava le indagini, cioè il pubblico ministero, e il giudice per le indagini preliminari, cioè il magistrato chiamato a giudicare sulla base delle prove che al termine delle indagini venivano discusse nel dibattimento.
La riforma dunque rafforzava in maniera netta la distinzione di funzioni tra magistratura inquirente e magistratura giudicante. E di conseguenza trovarono maggiore legittimazione le tesi di chi proponeva di separare in maniera chiara anche le carriere, introducendo percorsi di selezione e di promozione differenziati. Significativamente, tra chi suggeriva questo approccio c’erano anche alcuni degli ispiratori della riforma del codice elaborata da Vassalli, come per esempio il magistrato Giovanni Falcone. La convinzione che stava, e tuttora sta, alla base di questa tesi è che separando le carriere si evitano i passaggi dalla funzione di pm a quella di giudice, e si scongiura il rischio che quest’ultimo sia in qualche modo condizionato dalla sua attività precedente nell’emettere la sentenza, finendo così con l’aderire all’impostazione seguita dal pm. La separazione delle carriere servirebbe inoltre, secondo chi la invoca, a promuovere attitudini e professionalità diverse per i pm e per i giudici, oltre a evitare la possibilità che chi abbia in passato condotto indagini come pm su certe faccende o su alcune persone si ritrovi anni dopo a giudicare questioni analoghe, o magari che riguardano gli stessi soggetti e le stesse questioni.
Il Csm, secondo la riforma, sarà dunque sdoppiato: la composizione dei due nuovi Csm sarà modificata per contrastare le dinamiche delle correnti interne, a detta del governo. I membri dei consigli saranno scelti tramite sorteggio anziché elezione diretta, sia per i togati (magistrati) sia per i laici (esperti di diritto esterni alla magistratura). Il sorteggio dei membri laici avverrà all’interno di un elenco di persone selezionate dal Parlamento. Un’altra novità importante è l’istituzione di una nuova Alta Corte Disciplinare, che avrà il compito di trattare le questioni disciplinari dei magistrati. Sarà composta da quindici membri e prevede l’ingresso di tre persone nominate dal Quirinale, tre sorteggiate da un elenco del Parlamento, e nove magistrati e giudici sorteggiati tra quelli con esperienza significativa.