Il termine “impeachment” torna nel vocabolario della politica italiana, come spesso accade in momenti di crisi istituzionali. Si tratta della messa sotto accusa del presidente della Repubblica, previsto all’articolo 90 della Costituzione, in caso di alto tradimento o attentato alla Costituzione. «Il Presidente della Repubblica – recita la carta costituzionale – non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri».
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I PRECEDENTI. L’impeachment è un antico istituto del common law, che si è sviluppato in Inghilterra a partire dal 1376, anno in cui il Parlamento inglese mise in stato d’accusa alcuni ministri di Edoardo III per corruzione e incapacità. È stato disciplinato dai padri costituenti degli Stati Uniti d’America nella Costituzione di Filadelfia del 1787. In Italia nessun capo dello Stato è stato messo formalmente in Stato d’accusa dal Parlamento, ma ci si è andati vicino. Il primo presidente della Repubblica minacciato di impeachment nel 1978 fu Giovanni Leone che lasciò l’incarico dopo una lunga campagna stampa che lo chiamava in causo per lo scandalo sugli illeciti nell’acquisto da parte dello Stato italiano di velivoli dagli Usa. Il secondo fu Oscar Luigi Scalfaro accusato di aver gestito fondi neri a uso personale quando era stato ministro dell’Interno. Ci si andò vicino anche Francesco Cossiga nel 1990, nell’ambito della vicenda Gladio. E non neanche la prima volta che i Cinque Stelle invocano l’impeachment: già Beppe Grillo aveva tre anni fa paventato il ricorso all’articolo 90 della Costituzione contro Giorgio Napolitano.
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LA PROCEDURA. È il Parlamento riunito in seduta comune a dover decidere a maggioranza assoluta la messa in stato d’accusa. Il giudizio sul presidente della Repubblica è poi demandato alla Corte Costituzionale, come stabilisce l’articolo 134 della Costituzione. Come prima cosa viene presentata, sostenuta da tutto il materiale probatorio, una richiesta di messa in stato d’accusa al presidente della Camera che poi trasmette il materiale ad un Comitato formato dai componenti della giunta per le autorizzazioni a Procedere di Senato e Camera. Nel caso in cui non siano avanzate richieste di ulteriori indagini, si apre la discussione sulla competenza parlamentare dei reati imputati. Se la relazione propone la messa in stato d’accusa, il voto è a scrutinio segreto e la destituzione scatta solo se si raggiunge la maggioranza assoluta. La questione passa infine alla Corte Costituzionale che, coadiuvata da sedici giudici aggregati estratti a sorte, potrà, dopo un vero e proprio processo, emettere la sentenza inappellabile.