“Loro sono tutti, mentre io sono solo”. “Loro non mi permettono di essere buono”. Così scriveva Dostoevskij nel dipingere il suo “sottosuolo”, un microcosmo interiore saturo di risentimenti, odio e malvagità, alimentato dal furore ideologico di chi si fa araldo di un rigido razionalismo, sorretto da teorie e assiomi che si presentano come inconfutabili ed indiscutibili. Parole e inchiostro da cui si potrebbe facilmente partire per tentare di analizzare quanto accade oggi in Italia sul tema migratorio. Una guerra digitale, ideologica, a volte concreta e caratterizzata da scontri di piazza, che si combatte sul terreno degli ultimi, dei più poveri, esplosa sul campo di coloro i quali sono rimasti e rimangono ai margini di un sistema economico globalizzato e liberista che trasforma le disuguaglianze in voragini. Accade così che i poveri si contendano con ferocia le briciole cadute dal desco dei potenti con ogni mezzo e con inusitata virulenza. Non si parla, però, soltanto di povertà materiale bensì di povertà culturale, umana, intellettuale che si annida tra le pieghe dell’ipocrisia degli uni e della brutalità degli altri. Un nuovo manicheismo oscurantista, buonisti contro cattivisti, sovranisti contro europeisti, magliette rosse contro magliette giallo-verdi, un bianco ed un nero che azzerano la scala cromatica rendendo l’aria del dibattito pubblico greve ed irrespirabile. Etichette e frastuono, schiumazza mediatica che nasconde l’inconsistenza nei contenuti ed un approccio politico che è solo tifo e non reale convinzione. Tra un hashtag sulla chiusura dei porti ed un altro sulla perdita di umanità, ciò che manca è la reale volontà di avanzare soluzioni strutturali a problemi strutturali basate su dati empirici e non sull’emotività del momento.
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PARTIRE DAI DATI PER TROVARE SOLUZIONI. Facciamo subito chiarezza su una cosa, l’Italia non è a rischio invasione. Secondo i dati dell’Unhcr nel 2017 sono sbarcate nel nostro Paese 119.247 persone a fronte delle 181.436 dell’anno precedente (-34%). Certo, bisogna tenere conto dell’accumulo di migranti risultante dagli anni precedenti. Particolarmente critico per l’Europa è stato infatti il 2015 quando nel vecchio continente sbarcò quasi un milione di persone. L’atavica mancanza di infrastrutture adatte, la gestione approssimativa e spesso speculativa dell’accoglienza, la propaganda politica e la miopia di una parte d’Europa che non comprende il carattere internazionale, se non globale, di un fenomeno che riguarda tutti hanno probabilmente determinato una distorsione percettiva dello stesso nell’opinione pubblica. L’ormai arcinoto processo dei ricollocamenti tra Stati membri, che avrebbe potuto costituire un’utile valvola di sfogo rispetto alle attuali circostanze italiane, non è mai decollato. Le trattative sull’argomento sono partite ben tre anni fa e non sono quindi una novità degli ultimi tempi. L’accordo del 2015 prevedeva la distribuzione di 160.000 persone sbarcate prevalentemente in Grecia ed in Italia nel resto dell’Ue. La cifra è stata poi ridotta quasi subito a 106.000 a fronte delle prevedibili resistenze politiche e, al novembre dello scorso anno, le persone che risultano attualmente ricollocate sono soltanto 31.000 (il 29%), esempio plastico di come una politica europea in tema di migrazioni sia ancora lontanissima dall’emergere.
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L’APPROCCIO UE. Eppure l’Ue ha dato prova in passato di saper ottenere risultati eccellenti nella gestione dei flussi migratori quando è riuscita a muoversi all’unisono. Le significative riduzioni nell’arrivo di migranti negli ultimi anni è infatti principalmente dovuto all’accordo con la Turchia che ha permesso di delocalizzare nel Paese di Erdogan le procedure di identificazione e valutazione delle richieste d’asilo delle persone in fuga dal Medio Oriente e da scenari sanguinari come quello siriano. In cambio, ovviamente, di laute sovvenzioni che ammontano a circa 6 miliardi di euro l’anno. È per questo che le nazionalità più rappresentate negli ultimi anni tra i migranti sono tornate ad essere quelle nord-africane e libiche in particolare. L’Europa ha tentato un approccio comune anche sul fronte nord-africano ma gli interessi delle singole nazioni, come la Francia, hanno impedito di trovare accordi che stabilizzassero definitivamente questo scenario ed incidessero seriamente sulle partenze dalle coste libiche. La seconda grande soluzione strutturale, interdipendente rispetto alla prima relativa ad una politica comune europea, è quella di riuscire a creare le condizioni affinché i migranti possano vivere dignitosamente ed in maniera sicura nei propri Paesi d’origine. Si può intervenire immediatamente promuovendo la nascita di zone franche anche in teatri caratterizzati da conflitto a gestione internazionale, sotto l’egida dell’Onu, per allentare la pressione demografica in uscita ed intervenire successivamente con investimenti ed interventi sul campo che mirino a processi democratici di nation-building. La gestione dei flussi migratori è un tema estremamente complesso che rischia di essere banalizzato in senso duplice. Da un lato la retorica del blocco navale di matrice sovranista, dall’altro la logica dell’accoglienza indiscriminata avvolta da furore ideologico ed ipocrisia. A farne le spese, ovviamente, i poveri, quelli in balia delle onde e quelli ai bordi delle strade che rovistano nei cassonetti.
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IL DIRITTO DEL MARE. Un aspetto che va necessariamente chiarito e su cui si è incentrato buona parte del dibattito pubblico riguarda le norme interne ed internazionali che regolano la fattispecie dei salvataggi in mare. Che cosa affermano le normative in questione? Come si inquadra la politica di chiusura selettiva dei porti praticata dal governo in quest’ambito? Partiamo dunque dal framework normativo, le norme che rilevano nella fattispecie in esame sono le seguenti: la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (Solas- Safety of Life at Sea, Londra, 1974), la Convenzione sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, (Sar – International Convention on Maritime Search and Rescue, Amburgo, 1979) e la Convenzione Onu sul Diritto del Mare (Unclos – United Nations Convention on the Law of the Sea, Montego Bay, 1982). In più, per quanto concerne l’Italia bisogna fare riferimento al Regolamento Ue n.656/2014 e al Codice della navigazione, al Piano Nazionale per la Ricerca ed il Salvataggio in mare (Dpr 662/1994, attuativo della Convenzione Sar) ed al Decreto Interministeriale 14/07/2003 che ripartisce le competenze alle autorità preposte ai controlli in mare. Un dedalo normativo dunque nel quale è difficile districarsi e su cui è estremamente complesso costruire un’interpretazione giuridica inconfutabile e comunque comprensibile al cittadino comune. Partiamo, innanzitutto, dal fatto che grava un incontestabile obbligo di salvataggio in capo sia ai capitani delle navi che si trovino nelle condizioni di essere a conoscenza di situazione di pericolo che riguardano altri natanti ed i loro passeggeri, sia agli Stati nelle cui acque territoriali si verifichino tali situazioni. L’unica eccezione a questo principio è rappresentata dall’estremo pericolo dato dalle condizioni di salvataggio che potrebbero rendere impossibile qualsiasi operazione di recupero a meno di mettere seriamente a repentaglio la vita dei soccorritori. Da questo punto di vista, gli Stati che abbiano spazi marittimi confinanti hanno l’obbligo di cooperare tra di loro nel definire le aree di pertinenza e nell’organizzare le operazioni di monitoraggio ed eventuale soccorso che dovesse risultare necessario nelle rispettive zone di competenza. In merito alla sorte delle persone salvate in mare, le normative sono molto chiare e prescrivono che il governo responsabile per la regione Sar in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Nel caso dell’Italia la situazione è particolarmente critica perché due nazioni con acque territoriali confinanti come la Libia e Malta non hanno mai ratificato la gran parte delle suddette convenzioni internazionali e rifiutano spesso di adempiervi, soprattutto Malta, scaricando l’intera responsabilità dei soccorsi sul governo italiano. Dal punto di vista giuridico, dunque, appare legittima la scelta di negare l’approdo sicuro a natanti che siano stati soccorsi in aree Sar non di competenza italiana, così come appare legittimo negare l’approdo a natanti privati che abbiano posto in essere operazioni di soccorso in aree Sar non italiane, sia che battano bandiera italiana sia che battano bandiera estera, qualora il governo ritenga che dall’approdo possa derivare un rischio concreto ed attuale per l’incolumità pubblica. In questo secondo caso, il governo italiano sarebbe invece costretto a concedere l’approdo qualora ciò si riveli necessario per garantire il diritto alla vita di chi si trova in mare dopo essere stato soccorso.