Poco prima di Natale mi trovavo in via dei Cerretani a Firenze, e in una di quelle poche giornate in cui era possibile fare quattro passi, sono entrato in libreria. Lì, fra gli scaffali della Feltrinelli, ho visto esposta fra le novità della poesia una minuta, bella edizione delle Poesie d’amore di Antonia Pozzi, edita da Pungitopo editore, curata sia nella scelta della carta, sia nella selezione dei testi, in un elegante formato tascabile. Insomma, l’ideale per chi come me ama a volte portare i libri con sé, e passeggiando fermarsi a leggere e a meditare.
Quella della Pungitopo è un’edizione minimalista, che mette al centro il testo, o meglio i testi, che sono in tutto 42, e per il resto si limita a fornire pochissime, essenziali informazioni sulla infelice vita dell’autrice, lasciando al lettore la libertà di immergersi nei suoi versi fatti di vibranti passioni, di ‘aspre nostalgie’, ‘di gesti lenti’ e ‘carezze cieche’. In queste atmosfere chiaroscurali è tutta la poesia di Antonia Pozzi, che parte dalle cose, da una partecipazione profonda alla vita, per arrivare poi alla magia della parole; a loro affida infatti non solo un messaggio, ma il suo stesso essere, in toni a volte piani e chiari, a volte essenziali, fulminei, altre volte cupi, drammatici, ma sempre capaci anche di evocare in maniera incisiva un’immagine, gli elementi principali di un paesaggio, un barbaglio di luce, il detto ma anche il non detto di ogni distacco (p.8):
Tu, partita.
senza desiderare la parola
che avevo in cuore e che non seppi dire.
Nel vano della porta, il nostro bacio
(lieve, ché ti eri appena incipriata)
quasi spaccato in due da un gran barbaglio
di luce, che veniva dalle scale. […]
La Pozzi ha una natura istintiva, viscerale, segnata dal tormento della passione, da una ‘animalesca irrequietudine’ (p.22), da una fragile fisicità. La scrittura l’aiuta a svelare il suo essere, a mettere a nudo l’aridità della sua anima, il lato oscuro di ogni relazione, la precarietà del rapporto con la vita alla quale si sente legata, che è tenuto insieme dal filo delle parole, che la aiutano a restare a galla, a trovare l’energia per risorgere dal suo inferno di passioni.
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I destinatari delle sue liriche spesso sono Lucia Bozzi (la sorella elettiva), ma anche e soprattutto Antonio Maria Cervi, il professore di latino e greco per il quale Antonia nutrirà un amore disperato e tragico, e al quale dedicherà versi struggenti di passione e vaneggiamenti, in cui l’amato le appare, con il viso velato da strisce d’ombra, trasfigurato, avvolto in un’aura di sogno, simbolo di un legame labile e momentaneo, della perdita e della separazione inevitabile, di un presagio nero di morte (p.15):
Io l’ho veduto, allora. Tu sonavi
il tuo violino, con la testa bassa:
le ciglia ti segnavano sul viso
due strisce d’ombra. Io vibravo, forse,
insieme con le corde, nei singhiozzi
che l’anima imprimeva alla tua mano
e t’incontravo al sommo delle dita.
O forse ti giocavo sui capelli
insieme con la brezza acre del mare.
Forse m’illanguidivo nei racemi
molli e compatti delle violeciocche.
E un giorno riponesti le tue musiche;
riponesti, piangendo, il tuo strumento:
la Morte te lo avea fasciato stretto
coi suoi velluti neri. Io t’ho veduto,
fratello, allora. Ma non so dov’ero.
Forse ero solo un ramo crasso ed irto
di fico d’India, dietro un vecchio muro.
Antonia Pozzi a un certo punto della sua vita sente che il tempo delle parole è finito: sceglie perciò, destando stupore nei suoi più cari amici, a soli ventisei anni di suicidarsi. Nonostante quella scelta estrema, la sua passione per le cose e per la vita vive ancora nelle sue poesie. Chi sa ascoltare la voce che vibra dai suoi versi può sentire non solo i tormenti di un cuore giovane, di un’anima sensibile e dolente, ma anche la tutta forza radicale e sovversiva dell’amore, vissuto fino in fondo, in tutte le sue oscure contraddizioni.