Raccontare la poesia è il nuovo libro di Luigi Fontanella, professore emerito alla State University di New York, poeta, critico, romanziere, drammaturgo. Lo abbiamo intervistato per i lettori di Pickline.
Luigi, come è nato questo tuo nuovo libro?
«Era un progetto che avevo in mente da tempo: raccogliere, revisionando e ampliando, quanto sono andato scrivendo sulla poesia italiana da cinquant’anni a questa parte. Un progetto legato anche a una sollecitazione di qualche anno fa dell’amico Giancarlo Pontiggia, co-direttore con Paolo Lagazzi della collana di saggistica letteraria della casa editrice Moretti & Vitali, presso cui il volume è stato pubblicato. Ne parlavamo ogni tanto in questi anni recenti ma io non mi decidevo di mettere mano a questa impresa. La lunga “clausura” a casa per il Covid e un periodo di insegnamento “coatto” hanno contribuito a rendere effettivo e ben più disciplinato il lavoro su questo progetto, di fatto da me iniziato, sia pure con varie interruzioni, nell’autunno del 2019 e poi reso continuativo, giornalmente, dal febbraio del 2020».
Perché ‘Raccontare la poesia’?
«Perché avevo la ferma intenzione di evitare un libro strettamente accademico, specialistico, paludato, cioè per pochi happy few. In me si era fatto forte e ineludibile il convincimento di un’opera concepita e scritta en poète; ch’è poi la “veste” nella quale mi riconosco appieno. E, del resto, la storia della letteratura offre esempi straordinari di libri di saggistica scritti da illustri poeti; basti pensare a “critici” letteralmente eccezionali come lo sono stati Baudelaire, Valèry, Ungaretti, Montale, Fortini, Raboni, ecc. Da qui il diffuso carattere di “racconto”, cioè di personale testimonianza critica; insomma un racconto-saggistico, un po’ volendo seguire le orme di alcuni miei Maestri che sono stati fondamentali: Giacomo Debenedetti, Alfredo Giuliani, Dante Della Terza, Cesare Garboli e, su tutti, benché da me ovviamente non conosciuto di persona, Leo Spitzer, la cui appassionata lettura nei miei anni harvardiani, fu folgorante e determinante. Il mio libro è un invito a leggere i poeti da me analizzati, che poi sono quelli che io ho attraversato e amato nel corso della mia vita. Pertanto, non una storia della poesia di questi ultimi cinquant’anni, ma un itinerario poetico costituito dalle mie intense letture di libri di autori italiani, non pochi dei quali da me frequentati personalmente».
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Che rapporto esiste fare questo tuo nuovo lavoro e quelli precedenti, e in cosa consiste la novità di questo lavoro nel panorama critico italiano attuale?
«Un rapporto, diciamo così, di continuità “evolutiva”; voglio dire che nella maggioranza degli autori da me trattati ho voluto non solo fare una rilettura critica, ma in un certo senso andare più a fondo nelle ragioni del loro poetare, del loro essere poeti in una società come la nostra in cui si assiste, sempre di più, a una progressiva disaffezione verso la poesia e, a questa, viene spesso sostituita la chiacchiera (come diceva Caproni) o il semplice sfogo solipsistico; poeti che sentivo, insomma, anche miei ideali compagni di viaggio».
In un mondo editoriale dominato dal mercato è possibile ancora fare ‘critica letteraria’?
«Penso che la critica letteraria possa e debba, ancor più oggi, esercitare – specialmente se rivolta alla nostra produzione in versi – sia il diritto di informare, attraverso l’analisi testuale (quello che un tempo si chiamava “il pubblico della poesia”), sia forse anche a indicare le magagne, i settarismi, i feticismi ad esso sottesi. Oggi non esiste più la “stroncatura” nei riguardi di un libro, al suo posto c’è il silenzio o il vile ossequio di parte. Compito del critico dovrebbe essere quello non solo di interrogare il testo che ha di fronte a sé ma anche quello di scovare (scavare) le ragioni che l’hanno determinato, vorrei dire la sua necessità».
Lo consideri un lavoro che chiude la tua lunghissima attività di critico oppure un’opera aperta?
«Per quanto mi riguarda, questo libro è un punto di arrivo dinamico, prima di tutto nel senso che vorrei davvero che esso non rappresentasse in alcun modo un compendio letterario sulla poesia italiana di questi ultimi decenni. Il mio intento era ed è – e questo avviene ogni qualvolta che affronto la lettura di un testo – quello di mettere a fuoco quei momenti e quelle modalità espressive che a un certo punto condensano la mia attenzione di lettore; un’attenzione che trascina con sé anche ovvie lacune, dovute, appunto, a gusti personali o a scelte contingenti. Non esiste un modello assoluto di critica; esiste il critico; la critica è il critico; torna alla mente lo straordinario discorso (Lo sviluppo di un metodo), ancora oggi attuale e illuminante, tenuto a Roma, poco prima della sua morte, da Spitzer – un critico che sapeva “spiare” gli stati d’animo che accompagnano la stesura di un testo. Spero che queste ultime asserzioni evitino fraintendimenti o risentimenti da parte di singoli poeti contemporanei, anche di forte rilievo, che hanno tutto il mio rispetto ma dei quali, molto semplicemente, non mi è capitato di occuparmi in modo specifico. Tutto ciò si evince facilmente in tutte e quattro le sezioni di cui è composto il mio libro, in particolare nella terza e nella quarta sezione. In quest’ultima, da me denominata Repertorio, mi occupo, di fatto, di poeti della nostra contemporaneità, sui quali, a volte, mi sono soffermato analizzando anche una singola opera. Un “repertorio” di voci diversificate, dove variano tono ed esposizione, a seconda dei casi, ma la cui espressività, sentivo empaticamente parallela alla mia di lettore, appassionato, sì, ma sempre obbediente a criteri di perspicuità e di godibile leggibilità. Perché, ripeto, come ho sottolineato nella mia Premessa, è questo, in ultima analisi, il proposito basilare e ambizioso che anima l’intero libro: quello cioè di costituire un invito al lettore affinché attraverso le mie pagine possa avvicinarsi ad alcuni poeti del nostro ultimo cinquantennio leggendo (o rileggendo) certe loro opere, e magari innamorandosene».