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Perché la strage di Cutro non cambierà nulla

Da oltre 10 anni ciascun governo italiano si è trovato a gestire un flusso piuttosto regolare di migranti che cercano di raggiungere l’Italia via mare. Una gestione più rivolta a ottenere consensi che a trovare soluzioni

Giusy Bottari di Giusy Bottari
Marzo 10, 2023
in Italia
Tempo di lettura: 5 mins read
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Perché la strage di Cutro non cambierà nulla

Quando le istituzioni vengono trasformate in simboli, la politica attraversa una fase difficile. Nel 2019 Giuseppe Conte riunì, simbolicamente, il Consiglio dei ministri a Reggio Calabria per dare un segnale sullo sfascio della sanità regionale. Nel 2009 Berlusconi fece la stessa cosa a L’Aquila come segno di vicinanza alle popolazioni colpite dal terremoto. Ieri è stato il turno del premier Meloni a Cutro. Ma non sembra che l’ennesima tragedia a pochi metri dalle coste italiane cambierà le politiche in materia di immigrazione. A Cutro il Consiglio dei ministri ha discusso e approvato all’unanimità un nuovo decreto sull’immigrazione, una mossa per dimostrare che l’esecutivo di centrodestra non fa passi indietro: lotta ai trafficanti, approdi legali, difesa dei confini.

Da una decina d’anni ciascun governo italiano si è trovato a gestire un flusso piuttosto regolare di migranti e richiedenti asilo che cercano di raggiungere l’Italia via mare partendo dalle coste del Nord Africa. È un fenomeno che non si può più definire un’emergenza, dato che ha connotati e dinamiche molto definite che vanno avanti, più o meno nelle stesse forme, dal 2011. Da quando in Libia iniziò una guerra civile che dura ancora oggi, mentre nel resto del Nord Africa e in Medio Oriente le proteste della cosiddetta “primavera araba” generarono repressioni e instabilità, spingendo molte persone a lasciare il proprio paese.

Nessun governo, neanche l’attuale di Giorgia Meloni, è riuscito a ridurre davvero gli arrivi o impedire che migliaia di persone morissero nella traversata o nei centri di detenzione per migranti. La causa principale dei flussi illegali è l’assenza di canali legali per trasferirsi in Italia da fuori dall’Unione Europea, sia per motivi di lavoro, di studio o per ragioni legate alla necessità di fuggire da violenze, miseria e persecuzioni. Nessuno ha aperto canali del genere. I governi che si sono succeduti hanno invece sperimentato soluzioni estemporanee, che hanno risposto spesso più a ragioni di consenso, che di efficacia reale.

Fra 2011 e 2013 arrivarono in Italia 118.884 persone via mare. Proprio nel 2013 avvenne quello che ancora oggi è il naufragio di un’imbarcazione di migranti più grave mai avvenuto in Italia in tempi moderni. Il 3 ottobre 2013 un peschereccio con a bordo centinaia di migranti partito da Misurata, in Libia, si rovesciò al largo delle coste di Lampedusa, la piccola isola italiana più vicina alla Tunisia che alla Sicilia. I morti accertati furono 368. Dopo quel naufragio il governo guidato da Enrico Letta avviò un’operazione militare e umanitaria, Mare Nostrum, che segnò un punto fermo nei dibattiti sul soccorso in mare.

Con Mare Nostrum il governo italiano dispiegò per circa un anno navi della Marina Militare, dell’Aeronautica Militare, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera per soccorrere le decine di migliaia di persone che in quei mesi partivano dalle coste della Libia e della Tunisia per cercare di raggiungere l’Italia. Mare Nostrum soccorse circa 100mila persone, ma le partenze furono talmente tante che morirono in mare anche 3.126 persone, secondo le stime dell’Agenzia Onu per la migrazione. In un’intervista a Libero alla fine del 2014 l’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, chiese al governo di «fermare i flussi migratori fino a che la disoccupazione italiana non scenderà sotto la soglia del 7%». Pochi mesi dopo iniziò ad auspicare, come fece più volte negli anni successivi, un blocco navale di mezzi militari per impedire con la forza alle imbarcazioni di migranti di raggiungere le coste italiane.

Il governo di Matteo Renzi, che succedette a quello di Enrico Letta, decise di chiudere Mare Nostrum pe avviare Triton, un’operazione di sicurezza portata avanti dalla controversa agenzia dell’Unione Europea per il controllo delle frontiere, Frontex: lo scopo principale non erano le operazioni di ricerca e soccorso in mare ma quelle di controllo della frontiera, per cercare di arrestare trafficanti e “scafisti”. La fine di Mare Nostrum spinse diverse Ong a sopperire all’assenza di navi governative che si occupavano esplicitamente di ricerca e soccorso. In quegli anni, parallelamente all’operazione Triton, il governo Renzi e poi il suo successore, quello guidato da Paolo Gentiloni, chiesero all’Unione Europea un aiuto per accogliere i molti migranti e richiedenti asilo che comunque riuscivano ad arrivare via mare in Italia. Nell’autunno del 2015 la Commissione Europea guidata da Jean-Claude Juncker approvò un meccanismo di “relocation” volontaria tramite cui i paesi europei potevano accogliere una parte dei richiedenti asilo arrivati in Italia e in Grecia.

Nel 2017 il governo Gentiloni, e in particolare il suo ministro dell’Interno Marco Minniti, ha approvato un codice di condotta molto stringente per le Ong e fece un controverso accordo con alcune milizie libiche, in estrema sintesi, per impedire le partenze di migranti dalle coste della Libia. Da allora l’Italia finanzia e addestra la cosiddetta Guardia Costiera libica, un gruppo armato che riporta con la forza i migranti che intercetta in Libia. Diverse inchieste giornalistiche hanno dimostrato i rapporti fra la cosiddetta Guardia Costiera libica e i trafficanti di esseri umani: sono moltissimi i casi di migranti e richiedenti asilo intercettati dalla Guardia Costiera e riportati in Libia, imprigionati nei centri di detenzione e poi riconsegnati ai trafficanti dietro pagamento di un riscatto, per poi finire nuovamente nelle mani della cosiddetta Guardia Costiera. Il numero delle persone morte in questi centri, inaccessibili anche per la stragrande maggioranza delle organizzazioni internazionali, non è mai stato accertato.

Il piano di Minniti ridusse effettivamente gli sbarchi sulle coste italiane, che passarono dagli 83.707 dei primi sei mesi del 2017 ai 35.617 degli ultimi sei. Ma alle elezioni politiche del 2018 e a quelle europee del 2019 gli elettori premiarono partiti che promuovevano posizioni ancora più dure e intransigenti sui migranti. Le elezioni europee furono vinte dalla Lega di Matteo Salvini, che in quel momento era anche ministro dell’Interno in un governo guidato da Giuseppe Conte e sostenuto sia dalla Lega sia dal Movimento 5 Stelle. Durante il suo mandato Salvini si occupò molto di immigrazione, confermando gli accordi con la Libia, promuovendo la politica dei “porti chiusi” e approvando due cosiddetti “decreti sicurezza”. Quella dei “porti chiusi” fu una strategia con una grossa componente di propaganda: le leggi italiane e internazionali non permettono al governo di approvare provvedimenti ufficiali per chiudere i porti a navi che trasportano migranti che intendono chiedere asilo.

La strategia dei “porti chiusi” decisa da Salvini generò sofferenze per migliaia di persone bloccate per giorni sulle navi delle ong in condizioni spesso disumane fra malattie, situazioni igieniche precarie e scarsità di cibo. In molti casi le Ong venivano fatte sbarcare a terra dalle autorità mediche o dietro pressione dell’Unione Europea. La persona che prese poi il posto di Salvini, Luciana Lamorgese, smantellò i decreti sicurezza e ripristinò alcune garanzie per i richiedenti asilo che erano state rimosse, come il permesso soggiorno per motivi umanitari.

Con l’insediamento del governo Meloni per molti versi siamo tornati indietro. Dopo il grave naufragio di un peschereccio con a bordo 150 migranti avvenuto domenica 26 febbraio al largo delle coste di Cutro, in Calabria, Meloni e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi hanno ribadito più volte la loro intenzione di «fermare le partenze» delle imbarcazioni di migranti. Il provvedimento più importante del decreto riguarda l’inasprimento delle pene per chi favorisce l’immigrazione clandestina. Il decreto non prevede solo un aumento della pena, ma l’introduzione di una nuova fattispecie di reato per “morte o lesioni gravi in conseguenza di traffico di clandestini”, che prevede da 10 a 30 anni di carcere. In particolare, da 10 a 20 anni per lesioni gravi o gravissime a una o più persone, da 15 a 24 anni per la morte di una persona e da 20 a 30 anni per la morte di più persone.
Oltre all’inasprimento delle pene per chi favorisce l’immigrazione clandestina, il decreto prevede la semplificazione di alcune procedure di espulsione per i migranti irregolari e il potenziamento con nuovi finanziamenti dei centri di permanenza. Meloni ha detto inoltre che il decreto prevede una restrizione della protezione speciale, la misura introdotta nel 2018 e che ha sostituito i permessi per motivi umanitari, con l’obiettivo finale di «abolirla» e sostituirla con altro. A questo tipo di misure, il decreto ne affianca altre che riguardano la gestione dei migranti regolari. Verranno ripristinati i cosiddetti decreti flussi, cioè una programmazione temporanea dei flussi d’ingresso di lavoratori non comunitari. Avranno durata triennale e verranno riservate quote per chi arriva da «stati che promuovono per i propri cittadini campagne mediatiche sui rischi per l’incolumità personale derivanti dall’inserimento in traffici migratori irregolari», secondo quanto dichiarato dal consiglio dei ministri.

Tags: CutroDecreto immigrazioneGiorgia MeloniGoverno MeloniMatteo PiantedosiMigrantiStrage di Cutro
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