Nuovo appuntamento di Nutida. Mi accoglie ancora una volta lo scenario del Giardino del pomario del castello dell’Acciaiolo. Siamo ormai in estate. Si sente l’odore dell’erba tagliata, bruciata dal sole. Il primo spettacolo è Animanimale di Roberto Doveri. Si tratta di un lavoro che il giovane coreografo ha ideato per la prima volta nel 2018 per il Balletto di Toscana, e ripropone ora al maschile e al femminile la stessa coreografia, in un gioco quasi di specchi che lega in una unità i due momenti anche se sembrano fra loro apparentemente separati. Due figure avanzano sulla scena. Sono due giovani ballerini: Chiara Casiraghi e Matteo Capetola.
I loro movimenti sono distopici, spezzati, tormentati, dolenti. Una donna si muove contorta sul pavimento, straziata da un male fisico che la tortura nel corpo e nello spirito. La luce del tramonto cade sui suoi capelli, sul suo viso. Sembra intrappolata in una tensione senza fine nell’atto stesso di levarsi da terra. Lui invece è silenzioso, immobile, la osserva da un angolo. Lei è prigioniera di una forza sconosciuta, di un potere che la tortura. Il suo sforzo è di liberarsi dal potere che domina la sua esistenza è titanico, a momenti disperato. Lui esce dall’angolo, cerca un’armonia con lei, finché entrambi non stramazzano a terra, risucchiati da un male che annulla ogni volontà, spegne ogni vita per sempre. Ma qual è quel male? È l’animale che è in noi, una parte che esiste in ogni uomo e che ognuno di noi rifiuta di veder.
Il protagonista della seconda parte è l’uomo. La donna è stesa a terra, quasi prigioniera della sua animalità. Lui invece si libra in cerca di una redenzione e liberazione. La sua è una danza di speranza nella disperazione, che rimette in moto anche lei, in un ultimo definitivo mancato incontro. Solo accettando l’animale che c’è in noi ce ne possiamo liberare. Solo così può risolversi il dramma che abita l’esistenza di ogni uomo. Mi sposto in un’altra parte del Giardino del Pomario.
Il secondo spettacolo è Into the Eyes/ La Gorgone di Giulia Orlandi e Monica Baroni. Una donna riemerge da un letto di pietra. Con movimenti lenti. Si muove quasi strisciando sulla terra, cerca una dimensione fra le cose. Il suo viso è sepolto nella terra, ed è coperto da una maschera. Riemerge dal passato ma sembra anche appartenere a un futuro lontano, a un tempo ancora non scritto. I suoi movimenti sono lentissimi come il suono metallico di un transistor. Poi si alza, si solleva lentamente, si guarda intorno come se prendesse coscienza della realtà per la prima volta, come se dopo secoli ricominciasse a esistere, a provare emozioni, a respirare il ritmo della vita. Danza, quasi nascendo e affondando nella terra: il suo è un grido di indipendenza del proprio sé, di liberazione da una maschera per mostrare il suo vero volto e guardare negli occhi il mondo e la vita. Il suo sguardo ipnotico si ferma sulle cose, apre le mani e lascia cadere terra, annunziando una verità antica e profetizzando tempi nuovi. Poi lentamente si incammina, ritorna nel buio del nulla del tempo da dove è venuta.
Sulla scena ci sono due donne. È l’ultimo spettacolo. È Imma di Aldo Nolli. È interpretato da Francesca Capurso e Matilde Di Ciolo. Imma significa madre, ed è una rilettura in chiave moderna della vicenda biblica delle due madri e del giudizio di Salomone. Le due donne hanno le spalle rivolte verso l’ombra, il volto nella luce. Spicca il colore delle loro vesti, lunghissime, di altri tempi. Sono delle figure mitiche ma anche moderne. Si muovono in sintonia nella prima parte. Sono due madri. O almeno dicono di essere tali. Il loro è un canto alla maternità, un atto per dimostrare ognuna con le proprie ragioni di essere madre. Sono madri antiche ma anche di oggi. Con passi regolari, cadenzati, solenni, avanzano simmetricamente verso una meta indefinita, verso qualcuno o qualcosa al quale devono testimoniare la verità del loro esserci. I vestiti avvolgono i loro corpi, ne lasciano trasparire la bellezza, che custodiscono come il segreto del loro essere, del loro tormento. I palmi delle loro mani sollevati verso l’alto sono un atto di coraggio, un’unità che le lega in modo indissolubile nello splendore intangibile dei loro corpi, che come offerte votive presentano dinanzi a chi deve giudicarle. I loro gesti sono un atto di preghiera solenne ed eterno.
Cantano il loro essere donna, la vita che sostengono di aver ospitato, il diritto a un’uguaglianza, a una indissolubile unità, a un’unica maternità che accomuna tutte le donne, e tutti i figli facendoli figli di una sola Madre. I loro movimenti sono strazianti, dolenti, profondi, in sintonia con un accordo interiore e ricordano ciò che è sacro, il valore assoluto della vita, la magia difficile ma non impossibile dell’incontro, l’amicizia fra donne apparentemente rivali ma anche la rottura dell’unità nel momento in cui sono davanti al giudice e devono rivendicare il comune diritto di ogni donna e forse di ogni creatura alla maternità. Le madri di Aldo Nolli evocano dolori trattenuti nel silenzio, partecipazione, lotta ma anche accettazione della propria condizione, passione, misura, pensiero, in altre parole poesia.