Un altro appuntamento del Festival di danza Nutida. Dal Pomario del giardino del castello dell’Acciaiolo si alza una lieve brezza di frescura. Sta per incominciare lo spettacolo di Pablo Girolami: “Rer”. Si tratta di una ricerca artistica che rappresenta un’evoluzione della vita sulla terra che conosciamo, e che viene interpretata da sei artisti (Guilherme Leal, Fabio Cavallo, Shani Hadashi, Yasmin Griv, Sara Ariotti, Katarzyna Zakrzewska). Mi colpisce subito fin dall’inizio la loro posa immobile, fissata in un tempo ipnotico, al ritmo di una musica che scandisce il loro esistere.
Le loro mani sono sollevate verso l’alto, si aprono verso il cielo. Senza spostarsi dalla loro posizione i loro corpi sinuosamente compiono movimenti lentissimi, in un intreccio di incontri solo evocati, di carnalità che non si sfiora, che si mostra in una fisicità non classica, in una sintonia fisica e in un’immersione in una dimensione onirica, extratemporale, in un mondo del pensiero ma anche della tecnica, in un immaginario che va oltre ogni percezione, e che è voluttà, piacere, promessa, ritorno. Tutto ciò come in un rito, in una comunicazione tutta da inventare, in un tentativo di ritrovare il legame con la vita, e di liberarsi da ogni inibizione, da ogni sovrastruttura sociale e mentale.
Un momento centrale nello sviluppo del balletto è l’istante in cui l’unità si frantuma: i ballerini allora acquistano una loro, seppure momentanea, individualità, una loro autonomia emozionale, in una tensione ed energia comunicativa forte e senza tempo. Diventano figure marchiate dalla vita, che esprimono il loro esserci nonostante tutto. Questa gioia esplode in movimenti nervosi, in una danza catartica di immersione in tutto ciò che è ed esiste, in una immedesimazione panica con l’esistenza, che esorcizza il presente e annulla il tormento, e porta alla luce volti segnati da una forte creaturalità. La loro vita è tutta nell’azione continua e incessante, che può spegnersi e annullarsi solo nel grembo dell’esistere da cui è nata.
Passano pochi secondi. Comincia l’altro spettacolo di Girolami. Una sorta di secondo tempo, diverso ma anche speculare al primo. Si intitola “Lppmdvdm” (Le plus petit musée de vie du monde) ed è interpretato da Matteo Capetola, Matilde Di Ciolo, Veronica Galdo, Aldo Nolli, Niccolò Poggini. In quest’opera il coreografo porta avanti un’indagine sulle grandezze sia in minuscolo sia in più grande. Immagina un’isola volante in mezzo al deserto, molto arida, dove all’interno c’è le plus petit musée de vie du monde, forse gestito da batteri e da esseri minuscoli, che dopo dieci o dodici mila anni bloccati e mineralizzati cominciano a organizzare una specie di organicità. È una ricerca su come un nuovo inizio possa portarci in crisi e su quanto la natura possa essere forte e abitata da essere minuscoli.
Entrano in scena i primi due danzatori: ci trasportano in un mondo caratterizzato da toni netti ma anche onirici (spiccano nella scelta degli abiti i colori bianco e nero). Subito i loro passi si distinguono per la tensione verso un punto indefinito ma anche l’attrazione fortissima verso la terra. Poi i ballerini diventano cinque: i loro gesti si fanno nervosi, spezzati, mentalmente controllati. Sono avvolti in un intreccio, in un groviglio invisibile di sentimenti, emozioni, di tensioni che li logora, che li fa ritornare sempre a un inesorabile punto di partenza; li affligge, affatica le loro membra, li prova e deforma, li tortura in simulacri che rappresentano la lotta, lo strazio, la sofferenza ma anche amore e una passione malata, che si fa lamento, grido, spasimo, contrazione della mente e del cuore, agitata corsa verso una fuga e una liberazione. A un certo punto la musica di sottofondo si fa tumultuosa, frenetica. La danza si fa più lacerante. È un momento centrale di tutto il balletto: si percepisce come un’alterità che vuole emergere, venire fuori, un canto del piacere. Segue poi un ritmo ossessivo, ancestrale, che che penetra i corpi con la propria forza e potenza, li fa andare oltre i confini del proprio essere, in un esplosione di senso non razionalmente comprensibile, che ha nella carne, nell’incontro, in una vitalità fortissima la sua ragion d’essere.
Nell’arte di Pablo Girolami c’è una commistione di toni e di soluzioni tecniche che provengono anche da tradizioni non occidentali. I danzatori in scena impersonano non figure ma individui che trovano una propria alterità e rinascita in una danza dionisiaca per la vita, che una volta avviata non può essere interrotta, perché accende sonorità dimenticate, ritmi ancestrali. Danza, quindi, come esserci, ritrovarsi, lotta contro l’alienazione, l’omologazione, nel riconoscimento della diversità, dell’empatia, del proprio vero sé.