Tulsa (Oklahoma). Smartphone puntati sul palco dell'”eXPERIENCE + iNNOCENCE Tour 2018″. Non per filmare o fotografare il decollo del nuovo tour mondiale degli U2, o almeno non solo per questo, ma soprattutto per vedere Bono entrare in scena e dominarla in versione ologramma come un moloc blu elettrico mentre si cala nelle vesti di un Frank Sinatra fantascientifico per sussurrare “Love Is All We Have Left”. L’interazione tra virtuale e reale è il modo per coinvolgere ulteriormente il pubblico in un’esperienza sensoriale a 360° ed è la realtà aumentata la grande novità della ripresa del tour lasciato interrotto nel 2016 per dare spazio alle celebrazioni del trentesimo anniversario di “The Joshua Tree” con un tour mondiale negli stadi che ha fatto registrare l’incasso record di 316 milioni di dollari. Messo da parte anche per quel “primo contatto con la morte” che spinse Bono a rielaborare drasticamente “Songs of Experience”, l’album gemello di “Songs of Innocence”, salito in cima alle classifiche di tutto il mondo lo scorso dicembre.
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LA NUOVA PREGHIERA DI BONO E COMPAGNI. E proprio dai fantasmi spettrali di “Blackout” e dalla paura della morte di “Lights of home” (“non dovrei essere qui, perché dovrei essere morto/ Oh, Gesù, sono ancora tuo amico. Cosa diavolo hai in serbo per me?”) prende il via il corpo centrale del nuovo spettacolo Una rincorsa verso la fine del buio, verso una nuova luce di speranza. Per ritrovare l’innocenza, attraverso la saggezza e l’esperienza. È la nuova preghiera degli U2. Più giocosa. Meno elaborata. Più semplice. Più pop contro l’oscurità dei tempi. Siamo lontani dal rock da stadio tipico della band di Dublino, e t non a caso questo tour si svolgerà soltanto nei palasport (in Italia al Mediolanum Forum di Assago-Milano l’11 e 12, e poi il 15 e 16 ottobre). “Beautiful day”, con un accenno a “Many river to cross”, e l’inattesa “All Because of You” alzano la carica adrenalinica nell’arena e l’inclinazione punk. Il palcoscenico aperto che si allunga da una parte all’altra del Bok Center di Tulsa e un maxischermo ad altissima definizione, posto perpendicolarmente al classico stage, attraversano tutta la platea creando con disegni e immagini un effetto sbalorditivo e mai ridondante, modernissimo ma delicato; magico semmai, quando Bono si allontana dalla luce del bulbo nudo e entra egli stesso a far parte del mondo proiettato lì dentro, in quella Dublino disegnata da mano esperta e infantile, nella cameretta di un diciottenne accanto ai manifesti dei suoi miti, Bowie e Lennon, Clash e Sex Pistols; tenero e drammatico quando dalla mamma invoca un abbraccio, mentre la si vede giovanissima nuotare nell’oceano, o mentre, seduto sul letto, insegna la chitarra a una ragazza di nome Alison.
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ADOLESCENZA E STORIA DEL ROCK. È la “Innocence Suite”, il cuore della narrazione del tour precedente conservato intatto. In un crescendo di emozione Bono interpreta la trilogia della sua fragilità (“I will follow”, “Mother” di John Lennon, “The Ocean” “Iris”, “Cedarwood Road”, “Song for someone”). Poi Dublino diventa buia, minacciosa, il messia selvaggio ruggisce “Sunday bloody Sunday” e “Raised by wolves” e invoca «giustizia per i dimenticati», quei manifestanti uccisi a Londonderry nel 1972 e le vittime dell’attacco terroristico del ’74 a Dublino e Monaghan i cui volti scorrono impietosamente sullo skyline della città. La voce di Bono è al top, il suo potere di entertainer enorme quando si protende verso il pubblico con una maschera feroce per interpretare “Until the end of the world”: la sua forza è nella voce, in quel carismatico predicare che unisce le platee e nel poetico recupero dell’infanzia e dell’adolescenza dublinesi che s’intrecciano con la Storia e con il rock’n’roll.
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IL RITORNO DI MR. MACPHISTO. Le note di “Hold me, thrill me” introducono Bono con un cilindro alla zio Sam e la seconda parte dello show, più potente sin dall’iniziale “Elevation”, seguita a spron battuto da “Vertigo”, con un The Edge che si aggira sul palco come un animale affamato. In una sequenza che comprende “Desire”, le acustiche “You’re the best thing about me” e “Staring at the sun”, fa capolino “Acrobat”, brano che da tempo la band non presentava dal vivo. Con la magia della realtà aumentata, Bono torna a indossare i panni di quel Mr. MacPhisto che telefonava ai grandi del mondo nello storico “Zoo tv live tour” del 1993 con un agghiacciante discorso sulla natura del male. Fatta eccezione per “The Joshua tree”, suonato sino alla nausea lo scorso anno, e per lo sfortunato “No Line No Horizon”, tutti gli altri capitoli della carriera ultraquarantennale del quartetto irlandese vengono citati nelle quasi tre ore di musica del concerto.
IL TRIPUDIO FINALE. Immancabile “Pride”, che diventa una sfida all’America razzista. Gli U2 hanno il coraggio di usare le immagini dei nazionalisti bianchi intransigenti mentre con le loro torce illuminano Charlottesville lo scorso agosto, con le facce ardenti di odio; così come altre immagini di neonazisti e sostenitori del KKK che combattono per le strade d’America. Il messaggio è chiaro: il sogno americano è ancora vivo nonostante l’ascesa degli idioti, dei truffatori e degli imbroglioni che attualmente occupano l’ufficio presidenziale negli Stati Uniti. Ai 19mila del Bok Center non sembra dispiacere. E poco dopo, “Get Out Of Your Own Way” e “American Soul”, eseguite di fronte a un enorme bandiera stelle e strisce con Bono armato di megafono su un piedistallo, ribadiscono il trambusto del rock’n’roll e il potere. La band torna a cavalcare i cavalli selvaggi di “Who’s Gonna Ride Your Wild Horses”. È il tripudio finale con “City of Blinding Lights” e “One”, due emozioni immortali, prima di salutare nel segno della saggezza e della speranza: «E se il terrore della notte viene a strisciare nei tuoi giorni / e il mondo viene a rubarti i bambini nella tua stanza / proteggi la tua innocenza dall’allucinazione / e sappi che il buio si raccoglie sempre attorno alla luce / C’è una luce che non riusciamo sempre a vedere … non lasciamo che si spenga» canta Bono nella conclusiva “13 (There is a light)”. Parole che il fantasma di William Blake (che ha ispirato i titoli, e forse il lavoro, degli ultimi due album degli U2) sarebbe stato contento di sentire. Il cerchio è completo: «La saggezza è il recupero dell’innocenza all’estremità dell’esperienza». È il sigillo che santifica Bono, The Edge, Adam Clayton e Larry Mullen junior. Inutile cercare in giro, nessun altro è capace di tanto. Gli U2 restano la migliore band del mondo.