Un «anno tosto», come lo ha definito la premier Giorgia Meloni, e non solo politicamente. Nel 2023 con l’economia in affanno, e il conflitto Hamas-Israele che si è aggiunto a quello in Ucraina, la politica italiana ha giocato di sponda con i drammatici fatti internazionali. Mentre le tappe elettorali hanno registrato nuovi picchi di astensionismo, a riprova di una disaffezione crescente. Il governo Meloni diviso tra trovare una soluzione definitiva al problema migranti e le sfide in Europa. I fatti più rilevanti riguardano due partiti a lungo baricentro per il governo del Paese, Pd e Forza Italia. I dem travolti dall’onda Schlein, ora alle prese con la difficile riorganizzazione del partito. I forzisti storditi dalla perdita del fondatore Silvio Berlusconi, anima del movimento e mediatore dei rapporti con Fdi e Lega.
Il 2023 ha visto un’agenda irta di difficoltà e imprevisti per il governo Meloni, specie sul piano delle risorse finanziarie. Ma anche sul filo del dialogo allacciato efficacemente con Bruxelles sul dossier migratorio e poi spezzato dal tanto decantato (e altrettanto discusso, per i costi milionari e per i dubbi di natura giuridica) protocollo d’intesa per aprire due centri per migranti in Albania, in cui trattenere fino a 36mila richiedenti asilo l’anno. Siglato a novembre a Roma dai premier Meloni e Rama e presentato con enfasi, sarebbe dovuto entrare in funzione a inizio 2024, ma è ancora alle prese con la ratifica del Parlamento e con lo stop della Corte costituzionale albanese, che deciderà sulla sua sorte il 18 gennaio. Destino analogo per l’accordo con la Tunisia, targato Ue e ispirato dall’Italia, propagandato come “un modello” ma ancora non entrato davvero in funzione. E che dire del Piano Mattei di cooperazione con l’Africa, la cui presentazione è slittata al 2024? Nel frattempo, sono arrivati via mare in Italia 153mila migranti, contro i 101mila del 2022. Un flusso che mette alla prova i soccorsi in mare e l’accoglienza, con eventi tragici come il naufragio a Steccato di Cutro.
La maggioranza punta tutto sul premierato. Giorgia Meloni abbandona il cavallo di battaglia e apre all’elezione diretta del presidente del Consiglio. Impone però una chiusura netta ai governi tecnici e alla possibilità di cambi di casacca che spesso ne favoriscono la nascita. Il ddl costituzionale sul premierato è stato adottato il 3 novembre 2023 dal Cdm, che lo ha approvato all’unanimità. Si compone di cinque articoli. Le due previsioni più contestate dalle opposizioni, ma anche da autorevoli giuristi, quella che attribuisce automaticamente il 55% dei seggi alla maggioranza che sostiene il premier e quella, inserita il giorno prima dell’approvazione, che consente alla stessa maggioranza “bloccata” di eleggere un altro capo del governo, una volta sola però. Di fatto così l’insostituibilità viene negata al premier eletto e attribuita paradossalmente al premier subentrante. Una obiezione che potrebbe portare a rivedere la norma nel corso del dibattito parlamentare. Ma il cammino è ancora lungo e irto di incognite: la più pesante, quella finale, affidata al responso degli italiani, a seguito del referendum.
La tattica di Meloni per ottenere di più in Europa non ha funzionato. Per mesi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha parlato di «logica di pacchetto», in particolare per giustificare i numerosi rinvii di governo e maggioranza parlamentare sulla ratifica della riforma del Mes. L’Italia è l’unico Paese a non aver ratificato la riforma del trattato, e questo impedisce la sua entrata in vigore effettiva. La riluttanza del governo su questo argomento deriva da una contrarietà storica e pregiudiziale dei partiti di destra al Mes, alimentata per anni attraverso una propaganda piuttosto aggressiva che lo descriveva come uno strumento di ricatto dei burocrati europei, ma anche di Francia e Germania nei confronti dell’Italia. Il governo, in particolare Giorgia Meloni e il suo partito, Fratelli d’Italia, non poteva permettersi di approvare la riforma del Mes senza rinnegare tutta quella propaganda del passato, e la non ratifica è stata giustificata questa «logica di pacchetto». Il ragionamento alla base è stato: ci sono tante discussioni in corso in Europa sulle materie economiche e fiscali, e l’Italia avanza rivendicazioni e proposte che altri paesi non vogliono accettare. Allora, per avere un maggiore peso negoziale in queste trattative, bisogna rinviare la ratifica del Mes finché non verranno accolte alcune delle nostre richieste. Strategia che con il voto favorevole sul patto di stabilità, il governo Meloni ha evidentemente fallito.
Stretto nella morsa delle correnti, il Pd, in costante perdita di consensi, si presenta all’inizio del 2023 con il Congresso “costituente” per la nascita di un “nuovo Partito democratico”. Ed è il 26 febbraio quando il Pd incorona la prima donna segretaria: Elly Schlein ha vinto le primarie del partito diventando la nuova segretaria dem. Il partito è diviso a metà. Le aspettative sono alte, ma anche forte è la delusione dell’area riformista che si sente estromessa. La leader neo-eletta non vuole una gestione collegiale, perché intende rispettare il suo programma che parla a sinistra. Era chiaro fin dall’inizio che sarebbe stata una segreteria ripiegata sui cliché ideologici. A dicembre sono arrivati in soccorso i protagonisti della gloriosa stagione dell’Ulivo, ma sembra più un tutorato a scadenza (elezioni europee) che l’apposizione di una fiche politica su un progetto.
Il 12 giugno del 2023 l’evento che chiude un’epoca. Al San Raffaele finisce a 86 anni l’esistenza di Silvio Berlusconi. Era ricoverato per accertamenti legati all’inesorabile decorso della leucemia di cui soffriva da tempo. La sua morte, sebbene non inaspettata, coglie lo stesso tutti impreparati. Fino alla fine dominus assoluto di Forza Italia, la creatura da lui fondata, ancora decisiva per regalare la maggioranza a Meloni. Figura controversa e divisiva ancor prima di entrare in politica: è stato anima e sentimento di un Paese, tra chi lo amava e chi lo odiava. L’eredità politica che lascia è una sfida enorme, il primato della libertà da declinare al presente, tra l’arrembaggio dei regimi ideologici e un ritorno al sovranismo.