L’arbitro Coelho ferma il pallone con le mani, in un gesto esageratamente teatrale, e fischia la fine della partita: Italia batte Germania Ovest per tre reti a una. Siamo campioni del mondo per la terza volta, e il Santiago Bernabeu di Madrid, insieme a tutta la Spagna paese ospitante, si inchina ai piedi dei più forti. Era il 1982 e il calcio italiano era un’eccellenza internazionale, mentre gli spagnoli, padroni di casa, si fermavano appena al secondo girone, ultimi dietro Germania Ovest ed Inghilterra, dopo aver sofferto molto già nel primo, terminato addirittura dietro l’Irlanda del Nord. Oggi, 36 anni dopo, sia noi che gli iberici possiamo vantare un titolo mondiale in più, ma le differenze sono diventate abissali. E non in nostro favore.
UN SISTEMA MALATO. Semmai ci fosse bisogno di ricordarlo a qualcuno, quest’anno dopo 60 anni non parteciperemo ai mondiali. Questo delittuoso destino è stato causato anche da una sconfitta pesantissima patita proprio in quel Santiago Bernabeu che ci aveva visto diventare padroni dell’universo calcistico. Un 3-0 netto e senza possibilità di replica che ha spento, molto più della decisiva debacle contro la Svezia, le nostre ambizioni. La partita di Madrid è lo specchio di un calcio, il nostro, ridimensionatosi oltre che nelle qualità tecniche, nella mentalità. Ed è questo il male peggiore. Prima di questa partita nessuno credeva nella vittoria dell’Italia, e la stampa definiva miracoloso un possibile successo. Il tetto del mondo che abbiamo raggiunto 4 volte nel corso della nostra storia ci è così crollato addosso, dandoci l’immagine di una nazionale che non gioca più per vincere ma per partecipare. Ci manca questo, la lucida e giusta arroganza del più forte. Se pensiamo a quanto accaduto l’altra sera allo Juventus Stadium, col gol fantascientifico di Cristiano Ronaldo, capiamo nettamente questo riferimento. Una giocata del genere è fatta sì grazie al talento, sì grazie alla forza atletica e alla coordinazione, ma soprattutto è compiuta perché chi se ne rende protagonista è fermamente convinto delle proprie capacità. È questo che fa la differenza tra un buon giocatore e un fuoriclasse. L’arroganza calcistica è un filo sottile che unisce personalità diversissime fuori dal campo, ma estremamente simili all’interno di esso. Pensiamo a Messi e a Ibrahimovic. A livello caratteriale sono esattamente lo zenit e l’azimut, ma dal punto di vista calcistico hanno quella presunzione che permette loro di rendersi protagonisti di giocate sensazionali. Così, la Pulga di Rosario può pensare di partire palla al piede da centrocampo e arrivare a segnare dopo aver scartato 11 avversari, e il Dio (per sua stessa definizione) svedese riesce a immaginare di poter fare una rovesciata a 40 metri dalla porta e fare gol. Chi dei nostri giocatori oggi potrebbe realizzare queste giocate?
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PICCOLI CLUB. Ovviamente però la nazionale risente di un sistema di club che ha abbassato terribilmente il livello del campionato italiano. Sono lontani i tempi delle 7 sorelle, dei campionati aperti fino all’ultima giornata, delle tante squadre capaci di battersi per obiettivi importanti. Oggi la serie A è scontata come la Ligue 1 francese, la Bundesliga tedesca e la stessa Liga spagnola, campionati che un tempo sbeffeggiavamo per questo, ma che oggi sono diventati paradossalmente un esempio per noi dal punto di vista delle infrastrutture e della gestione dei giovani. E se è vero che anche in Spagna il campionato è abbastanza scontato, con al massimo tre squadre che si giocano il titolo, è pure vero che questi team sono di altissimo livello internazionale. E non c’entrano solamente i soldi. Barcellona, Real Madrid e Atletico Madrid, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, non spendono neanche tantissimo. Per capirci meglio, è vero che i Blaugrana hanno speso 180 milioni di euro per un giovanissimo che ha ancora tutto da dimostrare come Dembelé, ma quanti campioni ha tirato fuori dal proprio settore giovanile? E tutti a costo zero. Anche il Real dei Galacticos, che nei primi anni 2000 spendeva e spandeva denaro, oggi punta forte sul settore giovanile. Che dire poi dei Colchoneros. L’Atletico è l’emblema del fatto che non servono solamente i soldi per vincere, ma la programmazione e l’intelligenza. Da noi tutto questo manca. Solo la Juventus si avvicina ai livelli delle big spagnole, ma rimane una spanna sotto. In Italia a livello di top team solo il Milan e la Roma utilizzano molti giovani prodotti in casa, ma i risultati non sono neanche lontanamente vicini a quelli ottenuti dal trio delle meraviglie iberico. E ciò è anche dovuto al fatto che quei pochi italiani tirati fuori dal settore giovanile, sono indottrinati più fisicamente che tecnicamente. Insomma, i nostri ragazzi non hanno più il piacere di giocare a calcio, puntando di più ad avere addominali d’acciaio per essere scelti. E dire che Maradona e Platini avevano la pancia…
RIVOLUZIONE MENTALE. Serve un cambio di rotta netto per il nostro sistema calcio che, proseguendo su questa squadra, ci vedrà barcamenarci per un piazzamento onorevole ancora a lungo, ciò che fanno nazionali che un tempo ritenevamo minori come la Svizzera. Come detto, i soldi non sono la sola cosa che conta. È vero, per ingaggiare i campioni servono fior di quattrini, ma questi bisogna ottenerli anche valorizzando ciò che si ha in casa. Tornando all’esempio spagnolo, l’Atletico Madrid ha una straordinaria tradizione di centravanti iniziata grazie a un prodotto creato in casa, quel Fernando Torres che, nato e cresciuto nel club, ha fatto ottenere ai biancorossi una plusvalenza incredibile che li ha portati in seguito a potersi assicurare altri crack del ruolo. Così a Madrid sono passati di seguito Aguero, Forlan, Falcao, Diego Costa e, oggi, “le Petit Diable” Griezmann. Tutti giocatori che, dopo aver fatto la fortuna del club, venduti hanno fatto e faranno posto al successivo fenomeno. Un autofinanziamento utopico in Italia, dove preferiamo copiare dai campionati esteri usanze a noi non consone come il match domenicale delle 12.30 e il calcio spezzatino piuttosto che le intuizioni fruttifere. Vedi Philippe Coutinho, mandato via dall’Inter per soli 10 milioni e rivenduto dal Liverpool a 150, o Aubameyang, meteora al Milan che lo vendette per appena un milione di euro al Saint-Etienne e poi rivenduto dal Borussia Dortmund all’Arsenal per quasi 70 milioni. Il limite maggiore del nostro movimento è l’incapacità di aspettare i ragazzi, che si vedono costretti nel migliore dei casi a emigrare, mentre nel peggiore cadono nel dimenticatoio delle serie minori. Serve una rivoluzione mentale, che faccia sviluppare nuovamente il talento dei nostri giovani. Del resto l’Italia è pallone. Viaggiando per lo stivale, in una città magari non ci trovi la Guardia Medica o l’autostrada, ma di certo ci troverai un campo da calcio. E al di là delle belle proposte di facciata come la riduzione a 18 squadre della serie A, le seconde squadre e gli stage della nazionale, serve realmente che i dirigenti cambino le loro vedute.
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LA CHAMPIONS. La due giorni europea parla chiaro: al momento siamo inferiori, e forse non solo alla Spagna. Una volta il calcio era quello sport dove accadeva anche spesso che il più debole riuscisse a sconfiggere il più forte, oggi non più. La Roma era sulla carta inferiore al Barcellona, e dai Blaugrana ha preso 4 gol. Al netto degli errori arbitrali e della sfortuna giallorossa, anche l’atteggiamento con il quale tutto il movimento si è approcciato alla partita ha determinato questo insuccesso. La “Maggica” ieri sera infatti era considerata una vittima sacrificale, e i commentatori consideravano un ottimo risultato il provvisorio 3-1 per gli spagnoli. Questo non è normale. Bisogna uscire da questa dimensione di inferiorità che ormai attanaglia il nostro calcio. La stessa Juventus, unica squadra attrezzata per competere in Europa, ha addotto come causa principale della pesante debacle casalinga la straripanza di un singolo giocatore. Questo non è possibile. La Juve è squadra di livello, e non può accontentarsi di dire che gli avversari siano semplicemente più forti. I bianconeri da anni hanno l’orticello di casa come un campo d’allenamento per presentarsi agli appuntamenti europei. Il campionato è di fatto una formalità per i quasi 7 volte consecutivamente campioni d’Italia, se si considera l’enorme disparità che permette agli juventini di vincere facilmente partite che sulla carta sarebbero difficili come il derby col Toro o la classica col Milan. Ma i bianconeri, di volta in volta, in campo europeo falliscono sistematicamente l’appuntamento più importante e, nel caso dello 0-3 subito da CR7 e Co., hanno pagato per una formazione che in campo nazionale resta dominante, ma in Europa subisce la freschezza altrui. La Juve è la cosiddetta “nazionale d’Italia”, ma se la nazionale è nel suo punto più basso una correlazione deve pur esserci. Buffon, Barzagli e Chiellini, per quanto giocatori di assoluto livello, sono al tramonto della loro gloriosa carriera, e il mezzo disastro compiuto da uno dei più forti portieri della storia e dal difensore ex Wolsfburg poco prima della perla del fenomeno portoghese, fa capire che, ancora una volta, noi italiani siamo indietro. Se poi si va a vedere che a centrocampo Allegri ha preferito mettere in campo lo sbarbatello Bentancur piuttosto che la bandiera prodotto del vivaio Marchisio, si nota in tutto e per tutto la differenza tra noi e gli spagnoli. Insomma, senza un cambio netto di rotta rischiamo di diventare come l’Olanda, che negli anni ’70 dominava tra club e nazionale e che invece oggi ha un campionato tra i meno competitivi d’Europa e una selezione che non è stata capace, come noi, di qualificarsi ai mondiali di Russia fallendo anche la qualificazione agli ultimi Europei. Gli stadi di proprietà, le dirigenze solide e gli investimenti oculati di certo servono, ma la cosa di cui il nostro pallone bucato ha più bisogno è riportare quei giovani che ogni giorno riempiono le strade e i campetti di periferia al centro del progetto. Roma non è stata costruita in un giorno, ma il nostro orgoglio non può più attendere. Perché vogliamo rivedere nuovamente il Bernabeu inchinarsi ai nostri piedi.